The Story of stuff – Intervista a Annie Leonard – Pubblicato su “Vivi Conspevole”
THE STORY OF STUFF
The “Story of Stuff” è un video dal successo straordinario che mostra come gli oggetti di uso comune, dall’estrazione delle risorse fino al loro smaltimento, siano responsabili della enorme devastazione ambientale a cui abbiamo sottoposto il nostro pianeta negli ultimi decenni. Intervista esclusiva ad Annie Leonard, deus ex machina del progetto,
Buongiorno Annie
Buongiorno Andrea, e grazie per aver pensato a me per questa intervista.
Grazie a te per la disponibilità. Vorrei partire chiedendoti: “Chi è Annie Leonard? Qual è il tuo background
Sono cresciuta a Seattle, a quei tempi una città verde e bellissima. La mia famiglia passava le estati in tenda facendo campeggio. Siccome a quel tempo le macchine non avevano schermi per i dvd che rincretiniscono i bambini nei sedili posteriori, io guardavo sempre il paesaggio fuori del finestrino. Anno dopo anno mi rendevo conto di come i boschi lasciassero spazio a centri commerciali e abitazioni; presi a domandarmi dove quei boschi fossero andati a finire e cosa potevo fare io perché non scomparissero completamente.
Poi andai al college in New York City. Il campus era sulla 116a strada e il mio dorm sulla 110a. Ogni mattina facevo a piedi i sei isolati e notavo pile e pile di sacchi di immondizia. Mi venne la curiosità di vedere cosa c’era nei bidoni dell’immondizia: soprattutto carta. Ecco dove andavano a finire i miei amati boschi. Negli Stati Uniti il 42% dei nostri boschi diventa carta e infatti circa il 40% dell’immondizia è carta, che potrebbe benissimo essere riciclata se si facesse raccolta differenziata. Potremmo ridurre del 40% la nostra immondizia e anche la nostra necessità di tagliare boschi aiutando così la lotta al riscaldamento globale.
Dopo aver scoperto che quasi la metà della nostra immondizia è carta, cioè boschi, volevo scoprire dove quella carta, che nel frattempo era diventata immondizia, andava a finire. Così andai a visitare la discarica di Fresh Kills a Staten Island, grande circa dodici chilometri quadrati ed una delle più grandi al mondo.
A parte quelle abusive, soprattutto sulle coste dell’Africa Occidentale, dove l’Occidente scarica la sua immondizia…
Sì, purtroppo è così. Comunque quello che vidi andava al di là di ogni immaginazione. Ovunque guardassi c’erano divani, frigoriferi, scatole, televisori, computers, abiti, insomma stuff(roba). Ebbi lì, in quel momento, la percezione che il nostro sistema era completamente fuori controllo. Una montagna di risorse naturali trasformate in rifiuti. Ma venti anni fa ancora non si parlava di queste cose e così capivo che c’era qualcosa di sbagliato ma non capivo cosa. Però decisi di scoprirlo.
Dopo il college ho lavorato per dieci anni ad una campagna di pressione internazionale per fermare i paesi occidentali dal portare I loro rifiuti nei paesi poveri. Ho girato il mondo visitando le fabbriche del Terzo Mondo dove la nostra roba viene prodotta e le discariche dove va a finire. Ho incontrato comunità che hanno perso le loro riserve d’acqua, ora necessaria per le fabbriche che dovevano produrre per l’Occidente, e che stavano ammalandosi sempre più a causa dell’inquinamento industriale. Capii allora che le nostre abitudini consumistiche sono la causa prima dei problemi ambientali, sociali, di salute in tutto il mondo. Così presi a pensare ad un modo di portare a gente la conoscenza di ciò che avevo scoperto e capito. Ma non volevo spaventare nessuno. Volevo semplicemente dire: “Hey gente, qui abbiamo un problema. Stiamo trasformando il pianeta in un’immensa pattumiera e per farlo dobbiamo lavorare come dei pazzi. Rimbocchiamoci le maniche e costruiamo un mondo migliore per noi e per i nostri figli”.
Ed è qui che hai avuto l’idea del video?
Ho fatto conferenze sul tema per anni. Capitava sempre più spesso che alla fine delle conferenze qualcuno suggerisse di farne un film, un video; per cui ho iniziato a ragionare su questa cosa e poi ho fatto un video con un amico con una piccola videocamera. Credo che il film abbia avuto successo perché ha un format simpatico, quasi comico, e condensa in una ventina di minuti una quantità enorme di informazioni dando una panoramica completa del problema. Ha avuto così tanto successo che come sai abbiamo fatto altri film, tutti disponibili gratuitamente sul sito “storyofstuff.org”. Il mio obiettivo era generare consapevolezza sull’assurdità del nostro sistema di produzione e consumo e direi che l’obiettivo è stato raggiunto anche se continuiamo a lavorare per fare sempre meglio.
–ll film spiega come praticamente ogni “cosa” che usiamo nel nostro quotidiano implica estrazione, produzione, distribuzione, acquisto/consumo e infine eliminazione dei rifiuti. E’ stato difficile far passare questo messaggio?
Pensavo lo sarebbe stato. Dopotutto c’è un industria pubblicitaria multimiliardaria che lavora per finalità opposte. E non che i media aiutino ovviamente. Quanti articoli che lodano l’ultimo gadget tecnologico spiegano e mostrano magari con foto, le miniere a cielo aperto dove si scavano i materiali e le discariche dove vanno a finire? Quando il film uscì nel Dicembre 2007 speravo lo guardassero 50.000 persone. Pensavo sarebbe stato un gran successo. Invece è stato visto da più di dodici milioni di persone, tradotto in dodici lingue e ha ispirato dibattiti, articoli e addirittura canzoni e un musical. Evidentemente c’è molta gente pronta a recepire questo genere di messaggi.
-Paradossalmente il consumismo ci fa avere delle cose ma non ce le fa apprezzare… Sì. Io non sono contro gli oggetti ma non ha senso avere cose se poi non le apprezzi. E dovremmo avere anche maggior consapevolezza. Quando sai quanto materiale, quanta energia, quante persone hanno lavorato per un tal prodotto, il fatto che poi andrà a finire in una discarica è criminale. Ho una bicicletta da trent’anni e rifaccio fare la suola alle mie scarpe. Negli Stati Uniti la vita media di un cellulare è di un anno. Un anno !?! Materie prime, energia, lavoro, spesso anche sfruttamento e tu lo cambi dopo un anno?
-Dobbiamo anche far capire che vivere con meno cose è qualcosa di positivo, che migliora la qualità della vita.
Assolutamente sì. Essere incastrati nel meccanismo “lavora e spendi” è un circolo vizioso. Consumare meno non significa fare il martire ma essere liberi. C’è anche un’emergente scienza della felicità, se così la possiamo chiamare, che spiega bene come una volta che abbiamo soddisfatto i nostri bisogni basilari, ciò che ci rende felici sono la qualità delle nostre relazioni sociali, il tempo con gli amici e la famiglia, ecc. Per cui più stacchiamo la spina da uno stile di vita consumista più stiamo meglio, noi e il pianeta.
-Ho letto che siccome sei anticonsumista passi per antiamericana. E’ vero?
E’ curioso no? Proprio non capisco. E’ come se ci trovassimo su una nave che sta affondando. Se tu lanci l’allarme sei nemico del capitano? O della nave? Al di là dell’evidente stupidità dell’affermazione, trovo semmai antiamericano non voler vedere che la qualità della vita si sta abbassando moltissimo negli Usa. L’Happy Planet Index dice che siamo al 114 posto su 143 Paesi. Questo significa che 113 Paesi sono più bravi di noi a trasformare risorse naturali in benessere umano. Dovrebbe farci riflettere.
-E’ chiaro che il consumismo è un problema ma noi siamo oltre il consumismo. Siamo al super-consumismo, all’iper-consumismo. Sei d’accordo?
Sì, e questo ha a che fare con il rapporto che abbiamo con il consumo. Chiunque deve in qualche maniera consumare per vivere. Nessuno lo discute. Ma oggi abbiamo quattro grossi problemi con il nostro tipo di consumo. Numero uno: consumiamo troppo. Consumiamo più risorse di quante la Terra riesce a produrre. Numero due: consumiamo troppa roba chimica che ci fa ammalare. E’ un processo silenzioso, giorno dopo giorno, ma nessuno in questo mondo è più sano. Numero tre: la distribuzione del consumo è del tutto iniqua; c’è chi ha troppo e chi niente. Questo è del tutto immorale. Numero quattro: confondiamo l’avere con l’essere. Compriamo cose per dimostrare la nostra identità. La gente che ha – macchine, case, vestiti – si crede migliore di chi non ha. Di positivo c’è che i quattro punti sono tutti risolvibili.
-Quando sento dire che la globalizzazione è una cosa buona mi vien da ridere. Ciò che davvero globalizziamo è il nostro stile di vita frenetico e la nostra infelicità.
Penso che una globalizzazione dell’amicizia, delle idee, della musica ecc. possa essere positiva. Ma quella che è in atto, cioè la globalizzazione economica, ha a che fare con la sottomissione delle comunità locali, dell’ambiente e della diversità culturale. E questa globalizzazione è un disastro.
-Tu hai viaggiato in molti paesi del terzo Mondo. Sei d’accordo se dico che nonostante la loro povertà sono in generale più sereni e felici di noi occidentali? Non voglio dare una visione romantica della povertà, ma il fatto che questi paesi, non ancora immersi in una cultura consumista, abbiano relazioni sociali e valori, come la famiglia e l’amicizia, più forti, il fatto che abbiano maggior senso della comunità, mi fa dire che sì, penso che in generale stiano molto meglio di noi.
–Per molti anni, tenendo in mano un oggetto, non riuscivo a non pensare alla distruzione che esso aveva causato. Hai mai avuto questa sensazione? Costantemente! Non posso fare a meno, quando ho un oggetto tra le mani, di pensare alle miniere o alle foreste dove la sua vita è cominciata, a coloro, spesso sfruttati, che hanno lavorato per costruirlo, ai trasporti necessari per farlo arrivare ai negozi e infine alle discariche dove andrà a finire. Una soluzione, almeno parziale, a questo problema, è comprare locale, biologico e
-C’è stato un preciso momento storico in cui abbiamo iniziato a confondere l’avere cose di cui abbiamo ragionevolmente bisogno con l’avere cose per mancanza di autostima?
Intorno agli anni ’50 i pubblicitari hanno iniziato a cercare nuovi approcci per far sì che la gente continuasse a comprare cose di cui non aveva bisogno. Per cui se da un lato si è iniziato a sperimentare la regola dell’obsolescenza programmata del prodotto, dall’altro i pubblicitari studiarono a fondo le scienze della psicologia e della comunicazione per inventare campagne pubblicitarie che facessero sentire la gente “sfigata”: comprare il tal prodotto ovviamente avrebbe risolto il problema.
-La pubblicità oggi non ha più a che fare con il prodotto che viene pubblicizzato ma piuttosto con sensazioni e sentimenti e desideri che abbiamo perduto. Il messaggio della pubblicità è: “Fai schifo. Vai a comprare un’altra macchina e non farai più schifo”. Questo significa che siamo una società profondamente insicura.
Purtroppo è così. E’ difficile riuscire a superare totalmente questa cosa quando vivi in un paese così consumista come gli Stati Uniti o ovunque in Occidente. Però posso dare due consigli: primo, non guardare la pubblicità. Non solo quella televisiva ma anche quella cartellonistica, quella che trovi nelle riviste. Ogni genere di pubblicità. La pubblicità ha messaggi subliminali che agiscono sul nostro subconscio per cui anche se credi di non esserne condizionato inevitabilmente lo sei. Anche coloro, come me, che sono ferocemente contrari al consumo.
In secondo luogo, dobbiamo sviluppare un metro di valutazione interiore su da cosa dipende la nostra felicità o soddisfazione, perché come ti dicevo il nostro cervello, a nostra insaputa, paragona costantemente i nostri vestiti, la nostra macchina, la nostra tv a quella del nostro amico, del nostro vicino di casa, del nostro collega. E se le cose dell’altro sono più nuove, più belle, più cool, allora spesso ci sentiamo inadeguati. E andiamo a comprare. Attenzione, questo è un processo inconscio. Non lo dico io ma un’infinità di studi. Quindi avere piena consapevolezza di cosa ti rende veramente felice e soddisfatto, bè, quello è un mezzo di difesa per liberarsi dalla trappola del comprare per sentirci bene.
-I nostri corpi sono pieni di sostanze chimiche e metalli pesanti…
Questa roba viene dal cibo che mangiamo, dai prodotti di igiene che usiamo, dai nostri vestiti, dai mobili di casa, dall’acqua che beviamo,dall’aria che respiriamo. L’Environmental Working Group (EWG) ha verificato che nel cordone ombelicale di un neonato ci sono oltre 200 sostanza chimiche di uso comune in industria e in agricoltura. La stragrande maggioranza di questi sostanze provocano cancro, problemi neurologici, di impotenza e altri svariati problemi di salute. La verità è che è impossibile conoscerne l’impatto totale. Ma penso che se un bambino nasce avvelenato, allora possiamo con ragionevole certezza dire che è arrivato il momento di dire ”basta”.
-Molti fanno affidamento sulla politica, altri sul cambiamento personale. Tu come la vedi?
Penso che si debba attaccare questo sistema da ogni possibile posizione. L’una cosa non esclude l’altra.
-Come dovrebbero muoversi i governi? I governi potrebbero fare tanto. Il problema è che sono nelle mani delle corporations.
In Italia il consumismo e la necessità di smaltire i rifiuti ha portato alla realizzazione degli inceneritori (chiamati furbescamente termovalorizzatori). Avete questo problema negli Usa?
Certo. Comunque li si chiami gli inceneritori sono qualcosa di terribile. Consumano enormi quantità di energia, inquinano l’aria riempiendola di agenti inquinanti e per costruirli ci sono enormi stanziamenti di denaro pubblico. Ovviamente presuppongono di continuare a consumare e creare rifiuti perché altrimenti che ci stanno a fare? Sul fatto che se ne trae energia: quanta energia è stata necessaria per tutti quei prodotti che “nutrono” un inceneritore? Se invece il problema rifiuti venisse affrontato a livello locale attraverso programmi di riduzione, riutilizzo e riciclo, migliorerebbe la qualità dell’aria, si creerebbero molti più posti di lavoro e soprattutto ci sarebbe un risparmio energetico. Se i lettori sono interessati all’argomento ti prego di segnalare il sito di GAIA (The Global Alliance for Incinerator Alternatives): www.no-burn.org.
-Alla fine di tutti i discorsi l’economia dipende totalmente dall’ecologia, per cui invece di misurare l’economia dovremmo misurare l’ecologia. Come si fa?
Bisogna adottare un metro che misuri la qualità dell’aria e delle acque, la biodiversità, le foreste che assorbono anidride carbonica, anche la nostra salute.
-Prima di te ho intervistato Julia Butterfly Hill la quale sostiene che tutti i nostri mali hanno una radice comune che lei chiama malattia della disconnessione. Cioè siamo sconnessi dal fatto che noi e la terra siamo la stessa cosa, e quindi far del male alla Terra significa far del male a noi stessi. Il fatto è che mentre la Terra può benissimo vivere senza di noi, noi non possiamo vivere senza una Terra sana. Sei d’accordo?
Sì, ovviamente sono d’accordo che siamo disconnessi dalla Natura. Altrimenti come puoi provocare disastri come quello della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico e poi mangiare anche il pesce che viene dallo stesso oceano? Però io credo che quella sia una posizione giustissima ma molto profonda, difficile per la maggior parte della gente. Dal mio punto di vista abbiamo anzitutto due problemi sui quali dobbiamo e possiamo agire subito: il primo è il sistema capitalista imperniato sulla crescita del Pil per il quale la crescita economica viene prima di tutto, prima anche della salute del Pianeta e dei suoi abitanti. Il secondo grande problema è la concentrazione di potere nelle mani delle multinazionali le quali hanno così tanto potere che determinano anche le scelte politiche dei governi attraverso il Wto e altri accordi internazionali di commercio che bypassano gli interessi nazionali. E questo è un problema virtualmente di ogni Paese al mondo. Per cui dobbiamo impegnarci per far uscire le multinazionali dai processi democratici e rimettere al centro la gente. Negli Usa è appena uscito un film su questo tema. Guardate il sito: www.storyofcitizensunited.org
-Quale messaggio vuoi dare ai lettori di “Consapevole”?
Anzitutto voglio ringraziare te e tutto lo staff per contribuire a diffondere una consapevolezza su queste problematiche così importanti per il nostro futuro. Poi vorrei dire ai lettori che è assolutamente possibile cambiare le cose e costruire una società sana, felice ed giusta. Ah, vorrei anche farvi i complimenti per il nome che avete scelto per la rivista: la consapevolezza è il passo più importante per il cambiamento e questa nostra chiacchierata è un gradino importante in quella direzione.
etico e soprattutto solo ciò di cui si ha veramente bisogno.