NON PRENDETECI PER IL PIL! Leggi la prefazione di Maurizio Pallante

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Mentre leggevo il testo di Andrea mi veniva in mente in continuazione una delle frasi più conosciute e citate di Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Questa affermazione, a prima vista, sembra semplicemente dettata da un’esigenza di coerenza. E in effetti questa connotazione non manca. Come fai a proporre dei cambiamenti se non cominci a praticarli tu in prima persona?

Già questo metterebbe fuori gioco tanti soloni, che si sforzano di analizzare cos’è che non va, di capirne le cause, di proporre delle soluzioni e non fanno nulla per cambiare la propria vita nella direzione che indicano. Ma allora, viene da obbiettare, non ci credete nemmeno voi a quello che dite!

Se poi si vanno a vedere le proposte che fanno, ci si rende subito conto che non hanno nessuna concretezza. Sono il frutto della scissione, tipica della cultura delle società industriali, tra due categorie di persone. Da una parte coloro che studiano come si fanno le cose e imparano a farle benissimo, ma non si domandano mai che senso hanno, perché si fanno, se vale la pena farle, se vanno a squilibrarne altre e come si connettono col tutto. E’ il sapere tecnico-scientifico. Dall’altra coloro che studiano perché si fanno le cose o perché sarebbe meglio non farle, ma non hanno la minima idea di come si facciano. E’ il sapere umanistico-filosofico.

Dai primi vengono progettate macchine finalizzate ad accrescere la produttività, cioè a consumare quantità crescenti di risorse per produrre merci che in tempi sempre più brevi diventano rifiuti. Dai secondi vengono le critiche, per lo più giuste, a questo modo di fare e le proposte di come cambiare, ma si capisce subito che spesso non sono applicabili. Perché quando si scende nella concretezza ragionano per sentito dire. Per fare proposte di cambiamento applicabili bisogna essere capaci di riunificare in se stessi, per quel poco o quel tanto che ci si riesce, la conoscenza del perché e del come. E la prova che si stanno facendo proposte di cambiamento concrete è data dall’applicazione nella propria vita dei cambiamenti che si desidererebbe veder applicati nel mondo. Come ci racconta e ci incita a fare Andrea.

Il fatto che parli dei cambiamenti che ha applicato nella sua vita rende efficaci le sue parole e quindi particolarmente comunicative le sue proposte. E per questo ha fatto bene a pubblicare in un pamphlet un compendio delle sue conferenze su questo tema, e altrettanto l’editore ad accettare di pubblicarlo, dimostrando di saper fare bene il suo mestiere di divulgatore culturale. Anche se la comunicazione che si crea nel tempo in cui avviene lo scambio diretto tra gli interlocutori di una conferenza non si può trasmettere, perché coinvolge la dimensione emotiva, perché è un momento vivo in cui si incrociano esperienze esistenziali e storie personali, e la riproduzione per iscritto non è in grado di riproporre tutto ciò. È però in grado di fare qualcosa di diverso e non meno importante: offrire la possibilità di soffermarsi, di rileggere, di appuntare le proprie riflessioni in alcuni passaggi. Il testo scritto scava più in profondità. Se perde nella dimensione emotiva per contro acquista in quella intellettiva.

Ma per essere, o almeno provare a essere, il cambiamento che si vorrebbe vedere nel mondo, occorre anche riflettere sulle esperienze che si fanno lungo questo percorso. Dalla pratica possono arrivare indicazioni decisive alla teoria, purché ci si fermi a riflettere sugli esiti di ciò che si fa. L’operazione non è semplice perché il mondo che non piace ad Andrea e non piace a me per gli stessi motivi che ci hanno fatto incontrare mentre camminavamo, lui per la sua strada e io per la mia, ha utilizzato un apparato straordinario di mezzi di comunicazione per convincerci che il mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili. Nel 1992 un giapponese naturalizzato americano, Francis Fukuyama, docente in una importante università, ha addirittura scritto un libro per sostenere che il mondo in cui viviamo è il punto più alto raggiunto dalla storia umana e non più superabile. Secondo Fukuyama, con la nostra società occidentale fatta di crescita economica e di democrazia parlamentare, siamo arrivati alla fine della storia. Ormai non c’è altro da fare che estendere questo modello a tutta l’umanità. A quell’epoca i fatti stavano già dimostrando che le cose non stanno così. Il primo campanello d’allarme sulla follia di un sistema economico finalizzato a produrre quantità sempre maggiori di merci era stato suonato nel 1972 con la pubblicazione del libro I limiti dello sviluppo da parte del Club di Roma. I fatti successivi hanno dimostrato che questo modo di vivere, di produrre, di consumare, stava avviando l’umanità verso l’autodistruzione. E allora, pur essendo cresciuti in quel mondo dove un immenso apparato, fatto di mezzi di comunicazione di massa, di istituzioni e di comportamenti di massa, batteva giorno e notte sullo stesso tasto che questo era il migliore dei mondi possibili, alcuni hanno cominciato a pensare che fosse vero il contrario, che bisognasse indirizzare l’economia sulla strada della decrescita e che la democrazia doveva uscire dal rituale delle elezioni tra partiti apparentemente diversi, ma unificati dalla stessa valutazione positiva di questo mondo, e tornare ad essere il coinvolgimento diretto delle persone nelle scelte collettive che avevano pesanti ricadute sulle vite individuali. Ma soprattutto che il fare non può essere il fine a cui gli esseri umani sacrificano la loro vita, ma deve tornare ad essere il mezzo di cui si servono per ridurre la loro dipendenza dalla natura, per utilizzarne le risorse allo scopo di realizzare meglio le proprie potenzialità. Il ruolo di produttori e di consumatori di merci non esaurisce la ricchezza degli esseri umani. Sono soltanto la premessa per sviluppare tutti gli altri aspetti che li caratterizzano: la capacità di amare, la creatività, la capacità di costruire rapporti di collaborazione con gli altri, di rendere felici i propri figli con il dono del proprio tempo e la trasmissione delle conoscenze che si sono acquisite nel corso degli anni, di lasciarsi rapire dalla bellezza, di rendere più bello il pezzetto di mondo in cui si trovano a vivere, di difenderlo dagli assalti di chi in nome del profitto vorrebbe distruggerli. Sono state queste riflessioni a farmi incontrare con Andrea qualche anno fa e a iniziare un confronto che penso abbia arricchito entrambi, che prosegue e continuerà ad arricchirci.

Liberarsi dai condizionamenti che ci sono stati imposti, volersi bene e non lasciarsi rubare la vita dal lavoro, non lasciarsi rubare dalle cose la capacità di fare esperienze significative, capire che un altro modo di vivere è possibile e più bello. Tutto questo ci racconta Andrea a partire dalla propria esperienza di vita dai tratti a volte un po’ picareschi, irridendo le vuote ritualità che inchiodano a fare quanto siamo stati educati a fare. E frase dopo frase, si delinea in modi sempre più precisi una filosofia di vita che rovescia i luoghi comuni, ne dimostra la vacuità. Con una grande idea di fondo: cambiare si può e fa bene, basta un po’ di coraggio per sconfiggere la paura, e chi cambia la sua vita cambia anche un po’ del modo di vivere di tutti. La sua operazione non ha soltanto una valenza individuale, ma anche una valenza politica. Se anche uno solo rompe il conformismo, il conformismo perde la sua maschera di inviolabilità. Si può rompere. La sua debolezza viene allo scoperto. Se anche uno solo riduce i suoi acquisti, la domanda di merci diminuisce e la crescita della produzione di merci ha bisogno della crescita dei consumi. Se tanti, sull’esempio di uno, riducono i loro acquisti il sistema economico fondato sulla crescita del prodotto interno lordo va in crisi. Insomma, a partire dalla sua esperienza Andrea ci dice che nelle mani di ognuno di noi non c’è soltanto la possibilità di cambiare la propria vita, ma anche di mettere un granellino di sabbia in grado di inceppare un ingranaggio molto più grande di lui.

Grazie Andrea e Pura Vida

Maurizio Pallante

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