La vita dopo il petrolio e la globalizzazione: la strada del localismo

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Pubblicato su “Consapevole”

Intervista a James Kunstler (Classe 1948, James Howard Kunstler è autore di tre saggi che hanno avuto un profondo impatto sull’America. Il suo bestseller, The Geography of Nowhere, ha scatenato reazioni e dibattiti. Scrive per The Atlantic Monthly e per il New York Times)

Oramai sembra certo: il picco del petrolio è stato raggiunto nella primavera del 2008 e lo scenario che ci aspetta non è per niente roseo: crisi alimentare, dei trasporti, del riscaldamento e del sistema sanitario sono solo alcuni dei settori che risentiranno della fine dell’oro nero a basso costo. Ma al di là delle nuvole si scorge uno spiraglio di luce: il localismo

Un nuovo presidente degli Stati Uniti, la recessione dell’economia mondiale  e il prezzo del petrolio previsto  in risalita a breve. C’è un filo che lega questi tre avvenimenti? Abbiamo chiesto il parere di James Howard Kunstler, autore di Collasso (Ed. Nuovi Mondi Media) e di Ritorno al passato (Ed. della decrescita felice), sull’eccezionalità dei tre avvenimenti e sulla situazione che ci aspetta nei tempi a venire.

 

Mr. Kunstler, cosa pensa dell’operato di Obama in questi primi mesi di presidenza?

In linea di massima darei un giudizio positivo. Di sicuro ci siamo lasciati alle spalle otto anni politicamente molto difficili. Non so quanto Obama potrà fare per aiutare la situazione globale, ma perlomeno sarà un sollievo avere un presidente che parla inglese correttamente (ride).

Cosa pensa degli aiuti più o meno mascherati all’industria automobilistica, il motore dell’economia statunitense?

Il vero motore dell’economia statunitense non è l’industria automobilistica ma quella dei sobborghi. Se in America circolano così tante auto e per così tanto tempo, questo è in gran parte dovuto allo sviluppo suburbano del paese. L’industria automobilistica dipende in gran parte da quella dei sobborghi. Per rispondere alla domanda, la cosa che mi disturba è che così la gente viene gabbata due volte. Prima quando procede all’acquisto dell’auto, poi perché di fatto si tolgono soldi dalle tasche dei cittadini per salvare aziende che evidentemente non hanno fatto bene il loro lavoro, non sono state gestite bene.

Non si può chiedere l’aiuto dello Stato solo quando fa comodo…

Sì. Non si può tirare in ballo lo Stato solo quando fa comodo mentre per il resto si procede alle deregulations – lo smantellamento dell’apparato assistenziale e legislativo a favore di un regime più liberista e concorrenziale – più selvagge. Insomma, o fai il capitalismo o fai il socialismo. Nelle moderne democrazie occidentali invece si fa il capitalismo quando ci sono profitti e il socialismo quando ci sono perdite. Si privatizzano i profitti, si socializzano le perdite. Ma al di là di questo, l’errore grave è cercare di tenere in piedi quella che io chiamo “l’utopia motorizzata”, cioè l’automobilismo di massa, che non è sostenibile da nessun punto di vista, né economico, né ambientale e neppure psicologico.

Quali sono, dal suo punto di vista, le prime aree di intervento alle quali si dovrebbe dedicare il nuovo presidente?

Sono tre in particolare: la produzione di cibo, i trasporti e il riscaldamento. Per rimanere ai trasporti, Obama si sarebbe meritato un bell’applauso se avesse deciso di rimettere in moto il sistema ferroviario che negli Usa virtualmente non esiste. Quello sarebbe stato un vero “cambiamento”, per parafrasare il leitmotiv della sua campagna elettorale. Gli Stati Uniti non possono permettersi di sprecare le poche risorse che hanno per sostenere qualcosa che non ha futuro. Ma mi rendo conto che il potere della lobby dell’automobile è enorme.

Per quanto riguarda la produzione di cibo?

L’agroindustria moderna, in particolare quella statunitense, è del tutto insostenibile. Noi abbiamo immense monocolture, centinaia ove non migliaia di ettari, gestite in maniera industriale: grandi macchinari che dipendono da petrolio a basso costo, irrigazione che dipende da petrolio a basso costo, input energetici di fertilizzanti, pesticidi ecc., e anche loro dipendono da petrolio a basso costo, così come il sistema di distribuzione dipende da petrolio a basso costo. Insomma, se non si vira immediatamente verso produzioni agricole locali e naturali, l’America rischia di ritrovarsi alla fame. E per fare questo è necessario ricostruire un sapere contadino che è andato perduto. Negli Stati Uniti meno dell’1% della popolazione è impiegato nell’agricoltura e comunque neppure quell’1% sa nulla di agricoltura naturale. Temo che in America ci siano poche decine di migliaia di persone in grado di praticare forme di agricoltura sostenibile e senza input energetici esterni. Secondo me neppure il biologico moderno è sostenibile. Bisogna pensare in termini di permacultura, di orti sinergici, di agricoltura naturale.

Da ultimo il riscaldamento.

In America del Nord (Stati Uniti, Canada e Messico) il gas ha “piccato” nella decade degli anni ’80. Il 60% del nostro gas viene dal Canada e il Canada non può morire di freddo per scaldare gli americani. Il gas naturale si può prendere solo sul continente, non si può trasportare come il petrolio. La coibentazione, l’isolamento termico, sono concetti che non esistono nell’edilizia americana. Le nostre case sono di plastica, sia in Florida che in Massachusetts. Da ultimo, considera che negli ultimi trent’anni la metratura delle abitazioni statunitensi è quasi raddoppiata. Credo di aver dato un quadro abbastanza preciso della situazione.

 

Sì. Passiamo all’economia. Quella statunitense, ma anche quella mondiale, sono in recessione. Quali previsioni si sente di fare per la seconda metà del 2009 e più in generale per i prossimi anni?

Le previsioni le lasciamo ai maghi. Io guardo la realtà. In Usa abbiamo assistito allo scoppio dei mutui subprime e della conseguente bolla immobiliare, che tra l’altro stanno continuando a fare vittime anche se nessuno ne parla più. Poi c’è stato il crollo di Wall Street. La prossima bolla sarà quella delle carte di credito. I mercati finanziari, che essenzialmente sono scommesse che si basano sul nulla, potranno anche conoscere brevi periodi di euforia, ma non durerà a lungo. Certe situazioni di altalena sono normalissime in periodi come questo. Per quanto riguarda l’economia reale, l’industria e il commercio, prevedo invece una discesa forse meno rapida ma continua e inesorabile.

Quali saranno i settori che ne soffriranno maggiormente?

A rigor di logica più un prodotto è inutile, meno si dovrebbe vendere. Lo stesso vale per i servizi. Comunque molte aziende chiuderanno e si perderanno milioni di posti di lavoro. Inoltre, ottenere credito non sarà più così facile. Questo sarà un motivo in più che concorrerà alla diminuzione del Pil. Ci si renderà conto che la recessione non è passeggera ma sarà la nuova realtà con cui tutti dovranno fare i conti. Però c’è da dire che quando una situazione eccezionale si protrae nel tempo non viene più percepita come eccezionale ma diviene piuttosto la nuova normalità. Lo dico come cosa positiva.

Qual è la strada da intraprendere?

Negli Stati Uniti ci sono già molte realtà di comunità e piccoli paesini quasi autosufficienti. Autoproduzione, economie locali e basate su prodotti e servizi con una utilità effettiva, solidarietà e senso della comunità: sono questi gli aspetti che caratterizzeranno il nostro futuro. La maggior parte dei lavori saranno nel campo dell’agricoltura e in attività artigianali. Di queste realtà i media non parlano ma ci sono, esistono già, sono delle bellissime anticipazioni di futuro. E’ a loro che dobbiamo guardare. Nei prossimi anni, contestualmente al continuo contrarsi dell’economia e dei consumi, ci sarà una forte accelerazione del localismo. I nuovi stili di vita saranno determinati, con dei limiti ovviamente, dalla nostra fantasia all’interno di queste due dinamiche. Più siamo in grado di immaginarci un futuro promettente, più questo futuro sarà migliore. Fortunatamente ci sono già molti movimenti, il più conosciuto è quello delle transition towns, che hanno intrapreso questo cammino.

Cosa possiamo fare per prepararci a quella che Lei chiama la Lunga Emergenza?

Essenzialmente una sola cosa. Ridimensionare qualunque attività produttiva. Se parliamo di famiglie, di singoli individui, basta osservare il comportamento di molte grandi aziende per capire cosa dobbiamo fare nella nostra vita. Molte hanno ridimensionato i propri piani di investimento. Ad esempio, diverse compagnie aeree che avevano in programma di rinnovare la propria flotta, hanno cancellato gli ordini pagando anche forti penali. Se le aziende ridimensionano, a maggiore ragione lo devono fare le famiglie.

Vorrei tornare brevemente sul localismo. Quali sono gli aspetti preponderanti che lo caratterizzeranno?

Ogni area della nostra vita ne sarà enormemente influenzata, in particolar modo la produzione di cibo. Questo significa, tra l’altro, che molti giganti della distribuzione chiuderanno. Localismo, dal punto di vista della crescita del Pil, è sinonimo di decrescita.

Il processo del localismo colpirà, nel corso dei prossimi anni, soprattutto le grandi città. Ci sarà un progressivo abbandono delle metropoli, dove l’uomo dipende in tutto e per tutto dal sistema, dove è molto più difficile stabilire relazioni di aiuto reciproco nonché vivere in maniera più semplice, e contestualmente la riscoperta di piccoli centri circondati da terreno agricolo dove è invece più semplice e gestibile una dimensione del vivere comunitario. Avremo problemi enormi con la sanità e con l’educazione scolastica e anche queste si ridimensioneranno fino a divenire parte integrante della comunità.

Quali saranno le conseguenze della recessione dal punto di vista sociale?

Il nostro standard di vita si abbasserà, e non parlo tanto del potere d’acquisto inteso in senso classico, perché non avere soldi per comprare cose inutili è solo un bene. Parlo, piuttosto, di famiglie che perderanno lavoro, che perderanno la casa, che non riusciranno a mettere da mangiare sulla tavola. Tutto questo attraverso una serie di disordini che colpiranno il sistema e che produrranno violenze diffuse; ciò è particolarmente preoccupante negli Usa dove la maggioranza della popolazione è in possesso di armi da fuoco e dove, purtroppo, la cultura del risolvere i problemi con la violenza è molto diffusa. Homo homini lupus è la realtà della società americana.

Lei prevede qualche settore dell’economia in crescita?

Quello della recessione (ride). No, scherzi a parte. Può anche darsi che qualche settore cresca. Potrebbe essere quello dell’agricoltura naturale e su piccola scala, o del mercato immobiliare nelle piccole cittadine, ma il sistema nel suo insieme è avviato in una spirale di recessione dal quale non può uscire.

Questa recessione, secondo lei, dipende principalmente dal raggiungimento del picco petrolifero, è corretto?

E’ evidente a tutti tranne agli economisti e ai politici (ride) che ci sono limiti fisiologici alla crescita dell’economia, a prescindere dal prezzo del petrolio. Comunque che ci piaccia o meno la modernità dipende esclusivamente da combustibili fossili, principalmente petrolio, a basso costo. Il raggiungimento del picco di fatto decreterà  la fine della modernità.

La caduta dell’Impero romano: un crollo energetico titolo

Tratto da Ritorno al passato. La fine dell’era del petrolio e il futuro che ci attende

Andrea Bizzocchi-James Howard Kunstler

Lo storico e antropologo americano Joseph A. Tainter ha proposto, nella sua opera “The Collapse of Complex Societies”, la caduta dell’impero romano quale esempio di crollo in seguito alla mancanza di energia, di una civiltà forte, potente ed organizzata.

Tainter propone pone a fondamento della sua analisi il dato di fatto inoppugnabile che la crescita e lo sviluppo di una società implicano un continuo e crescente investimento energetico. Mano a mano che una società cresce, raggiunge una complessità, che potremmo definire “multidimensionalità strutturale”, avviene il crollo.

Tainter osserva che nel momento in cui una società inizia ad avere scarsità energetica, reagisce specializzandosi e cercando soluzioni per risolvere il problema; il che sembra essere perfettamente logico. Ma ciò comporta una accresciuta complessità che richiede a sua volta un ulteriore input energetico. Il tutto aggrava il problema anziché risolverlo.

Sta avvenendo la stessa cosa con la ricerca di soluzione al raggiungimento del picco petrolifero ( o anche a quello del riscaldamento globale). La nostra società cerca di risolvere questi problemi attraverso un ulteriore progresso tecnologico e anche attraverso un accrescimento dell’intera struttura addetta (analisti ed esperti vari che si impegnano in viaggi e ricerche, studi, relazioni, campagne informative; tutto un ambaradan aggiuntivo creato con il fine di superare il problema). Il risultato finale netto è che questa struttura, ed il lavoro che genera, non fanno altro che provocare un’ulteriore ricerca energetica (e contestualmente maggiore entropia).

La cosa da fare sarebbe invece snellire, semplificare, ridimensionare, per necessitare di meno energia. Che tra l’altro, sia detto en passant, mi sembra una cosa logica anche da un punto di vista umano, non solo energetico.

Fu questa la risposta che diede Cuba al problema del “picco petrolifero artificiale” che la colpì all’inizio degli anni ’90, e fu questa risposta a salvarla.

 

BOX LIBRI

Andrea Bizzocchi, James Howard Kunstler

Ritorno al passato. La fine dell’era del petrolio e il futuro che ci attende

Edizioni per la Decrescita Felice, 2009

Pagine 221 – euro 12,00

James Howard Kunster

Collasso. Sopravvivere alle attuali guerre e catastrofi in attesa di un inevitabile ritorno al passato

Nuovi Mondi Media Edizioni, 2005

Pagine 342 – euro 20,00

 

Albert K. Bates

Manuale di sopravvivenza alla fine del petrolio. Riflessioni, consigli e ricette per fare a meno dell’oro nero

Amm Terra Nuova Edizioni, 2008

Pagine 228 – euro 18,00

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