IL CALCIO E’ MORTO E L’ASSASSINO SI CHIAMA BUSINESS. TUTTA LA STORIA, MINUTO PER MINUTO.

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Come eravamo


“… A cosa servono i palloni, incastrati sotto le marmitte, a ricordare quando fuori si giocava tra le 127” “Che Vita!” Samuele Bersani

Sono nato e cresciuto, un po’ come quasi tutti, dando calci a un pallone, che per ogni bambino è il gioco più immediato, praticabile ed economico (e questo è il motivo per cui in quasi tutto il mondo i bimbi giocano a pallone). Ai miei tempi le scuole calcio erano pochissime e pochissimi erano coloro che le frequentavano; erano anche, a differenza di oggi, gratuite. In compenso noi bambini giocavamo tutti i giorni dalle 3 del pomeriggio alle 8 di sera. Poi, quando prosciugati di energie si tornava a casa per la cena, mangiavamo quello che c’era in tavola senza tante storie.

Per giocare a calcio ogni spazio era buono: prati, parchi cittadini, giardini pubblici e privati, terreni incolti (una volta anche le città grandi avevano al loro interno una miriade di terrain vagues), l’oratorio (che se non aveva il campo da calcio si giocava in quello da pallavolo o da basket), la pista da pattinaggio (nella mia città, Fano, ce n’era una pubblica a fianco del complesso edilizio “Le Terrazze”, sempre occupata da noi maschi per giocare a pallone) e via andando.
Giocavamo sempre, anche appena usciti da scuola (ma solo per 10 minuti!) con le cartelle a fare da pali delle porte. Nessuno andava a scuola con un pallone nella cartella ma non si sa bene come… un pallone saltava sempre fuori alla bisogna. Ma soprattutto si giocava per la strada e nel pomeriggio erano le maglie (al posto delle cartelle) a fungere da pali.

Il calcio, una palestra di vita

Il calcio rappresentava una palestra di vita naturale, quando ancora le differenze sociali non c’erano e se c’erano comunque non contavano (almeno tra bambini); e soprattutto quando le zuffe tra noi – all’ordine del giorno per rigori non dati, palle che avevano passato la linea di porta oppure no, falli non assegnati, ecc.– ce le risolvevamo da soli senza genitori tra le scatole.
Oggi tutto questo non esiste più, sostituito appunto dalle scuole calcio, dove i bambini vengono scaricati dagli adulti (e recuperati un’ora dopo), di norma due-tre volte a settimana dietro pagamento di un obolo non indifferente, dove gli si devono comprare divise, divise di riserva, parastinchi, scarpette e via andando.
Qualche tempo fa mi è capitato di parlare con un bambino che doveva avere sui 10 anni. Mi ha detto che l’allenatore gli parla di tattiche, tagli, diagonali, ripartenze… “Se non facciamo i movimenti giusti si arrabbia” mi ha detto quel bambino.
Il gioco è scomparso e infatti quel bambino aveva gli occhi tristi (i bambini, giustamente, sono allegri solo se possono giocare).

La fine del calcio…
Se la modernità, il business e la tecnologia hanno fatto tabula rasa di quel mondo semplice e a misura di bambino, il calcio ne ha forse pagato il prezzo più alto; è stato distrutto, non esiste più, né per gli adulti, né per i bambini (anche se noi bambini di allora ci rifiutiamo di ammetterlo e continuiamo a seguirlo come se nulla fosse cambiato… I ricordi legati a quel mondo perduto sono troppo speciali per lasciarli andare come nulla fosse).
Si giocava a pallone tutta la settimana ma la domenica no: era sacra e dedicata all’ascolto delle gesta dei nostri idoli via radio. Alle tre della domenica pomeriggio, dopo il lauto pasto pranzo domenicale con tutta la famiglia estesa (altra tradizione scomparsa. Oggi è facile che una famiglia, la domenica all’ora di pranzo, la si trovi a comprare cose che non servono e a mangiare la pizza al centro commerciale), si accendeva la radio, si cercava la stazione e ci si collegava a ”Tutto il calcio minuto per minuto”. Si ascoltavano le partite, perlopiù in religioso silenzio, in compagnia di altri familiari (padri, zii, nonni) o amici, e i vari radiocronisti erano per noi amici più grandi, quasi degli zii. Gli eravamo affezionati.
Come dimenticare la voce roca di Sandro Ciotti, quella professionale di Enrico Ameri o di Alfredo Provenzali o di Enzo Foglianese o di Livio Forma? E come dimenticare Everardo Dalla Noce, Marcello Giannini da Firenze, Carlo Nesti da Torino, Tonino Raffa da Reggio Calabria, ma soprattutto il mitico Tonino Carino da Ascoli? Poi a dirla tutta, alle 6 del pomeriggio, c’era “Novantesimo Minuto” condotto da Paolo Valenti, anche lui con la sua faccia buona e la sua voce rassicurante. Questi erano i nostri riferimenti che, per quanto possano apparire banali, erano a modo loro solidi (certamente più solidi di Facebook e Musically).
Ecco, tutto questo non esiste più da tempo, sostituito da uno spezzatino calcistico bulimico spalmato (comprese le coppe europee) su 7 giorni ad uso – e soprattutto, consumo – di quegli innocenti bambini di allora oggi diventati adulti.

Calcio anni ’90: l’inizio della fine
Negli anni ‘90 con l’ingresso delle piattaforme televisive private, che per l’appunto distribuiscono le partite su più giorni rompendo la sacralità della domenica calcistica, inizia la fine del calcio, cui contribuisce non poco il decollo degli ingaggi monstre per via della famosa sentenza Bosman del 1995.
Negli anni i prezzi delle pay tv si abbassano mentre quelli degli stadi si alzano (con una perdita netta di presenze allo stadio superiore del 40% in poco più di venti anni). Pare che dal prossimo campionato le partite saranno ripartite in ben otto fasce (sabato una partita alle 15, una alle 18 ed una alle 20,30. La domenica si inizia alle 12.30 – all’ora di pranzo, con buona pace per l’appunto del pranzo in famiglia –, poi tre partite alle 15, una alle 18,30 ed infine il match clou delle 20.30. Ma non è finita, manca ancora il posticipo del lunedì sera).
Quindi il calcio che conoscevamo, quello domenicale delle tre del pomeriggio (che per quelli della mia generazione era un vero e proprio rito), è definitivamente morto e sepolto sostituito da una spettacolarizzazione sul modello americano dell’NBA (basket), della NFL (il football americano), della MLB (Major League Baseball) e addirittura anche del wrestling.
Quando sono a casa di mio suocero, in Florida, c’è una partita di qualcosa a tutte le ore, praticamente in tutte le stagioni. Business is business.

Europe is the new America.
Ma noi non siamo – e soprattutto non dovremmo voler essere – americani. Abbiamo una cultura, delle tradizioni, una identità, tutte cose che trasferite in ambito calcistico facevano dello sport e del calcio in particolare un fenomeno sociale importante. A modo suo il calcio rappresentava un collante sociale (mai nessuno sport ha assunto questa funzione negli Usa) in cui tutti, dal ricco al “povero”, dall’imprenditore all’operaio, erano, almeno la domenica allo stadio o il lunedì mattina quando si prendeva in giro l’amico perché la sua squadra aveva perso, tutti uguali. E tutti potevano soffrire o gioire allo stesso modo.
Insomma, anche nel calcio (così come in tutto il resto) siamo noi a doverci adeguare alle regole del business, a riprova, se mai servisse, che l’economia non fa bene a noi ma noi facciamo bene a lei.

Quando il business conta più del tifoso.
Oggi, i tifosi non commentano più la partita ma parlano di plusvalenze, minusvalenze, prestiti con diritto di riscatto che permettono di non gravare sul bilancio; oggi i tifosi sono contenti se “i conti sono a posto” ancor prima della vittoria della squadra.
Squadre importanti festeggiano un quarto posto in campionato (che una volta sarebbe stato visto come un fallimento) perché dà accesso alla Champions League (con i dindini che ne derivano); le società cercano di attrezzarsi con stadi di proprietà per garantirsi entrate economiche e i giocatori costretti a indossare divise che mandano brividi di orrore lungo la schiena dei tifosi – ma anche quelle servono a raggranellare qualche denaro in più.
Si fanno tournée estive in Asia o in America per fare qualche soldo e aprirsi al mercato globale, per non parlare delle cifre assurde che circolano per gli stipendi di giocatori, allenatori, commissioni dei procuratori, ecc. Una volta si parlava di calcio al bar sotto casa con gli amici, oggi pare di essere tra esperti di economia.
Del resto oggi le società di calcio sono diventate vere e proprie aziende, alcune anche quotate in borsa, devono fatturare e avere i conti a posto e i sogni dei tifosi non contano più nulla… e soprattutto dei tifosi non importa più nulla a nessuno.

Insomma, l’economia e le sue regole assurde hanno devastato anche il calcio (così come tutto il resto) e gli sconquassi sono gli stessi che hanno provocato in qualunque altro settore… Il pesce grosso fa sempre fuori quello piccolo e quindi i miracoli sportivi (salvo eccezioni come quella del Leicester di Ranieri in Premier nel 2015) non sono più previsti.
Non avremo più una Sampdoria (con i gemelli del gol Mancini-Vialli, il mitico Attilio Lombardo all’ala, il roccioso Pietro Vierchowod in difesa e il saggio e ironico – “rigore è quando arbitro fischia” – Vujadin Boskov a fare da papà a quella nidiata di giovani talentuosi), un Verona (allenato da Osvaldo Bagnoli, uomo d’altri tempi e con il mitico danese Preben Elkjaer Larsen a sfondare in area), un Cagliari con Gigi Riva (un campione inimitabile che fece tutta la carriera sull’isola. Oggi, lo avrebbe subito scippato qualche emiro a suon di euro) in grado di vincere lo scudetto.

Ma non avremo neppure più quasi miracoli come quello del Perugia guidato da Castagner che nel 1979 finì secondo contendendo il titolo nel 1979 al Milan fino all’ultima giornata (e finì imbattuto), preceduto l’anno prima dall’incredibile Lanerossi Vicenza (soprannominato Real Vicenza per il suo gioco spumeggiante) del giovanissimo bomber Paolo Rossi (non ancora Pablito) che arrivò secondo dietro la Juventus-Fiat.

Sogni… e miracoli sportivi
Tutti questi miracoli sportivi rappresentavano la gioia, la spontaneità, la purezza di uno sport che faceva innamorare e sognare. Facevano innamorare e sognare i bambini ma anche gli adulti (perché gli adulti dentro sono ancora bambini) ma non si ripeteranno più, perché da quando il calcio è stato t-o-t-a-l-m-e-n-t-e economizzato vince solo chi ha i soldi.

A parte l’Inghilterra, i campionati sono diventati una noia mortale. In Italia vince solo la Juventus, in Germania solo il Bayern Monaco, in Francia solo il Paris Saint Germain dell’emiro, in Spagna solo il Real Madrid o il Barcellona.
Ma non è solo l’economia. È anche la tecnologia (che è una ancella dell’economia). Oggi non si può nemmeno più esultare per un gol in diretta, perché hai sempre paura che entri in azione il famigerato Var che ti ricaccia l’urlo in gola. E se poi il Var, dopo 5 minuti (che per un tifoso sono quasi l’eternità!) dà il via libera alla gioia, capiamo benissimo che non è la stessa cosa perché non si può esultare a comando dopo 5 minuti.
L’esultanza è una manifestazione spontanea di una gioia interiore che avviene nel momento (ad esempio nel momento del gol). La tecnologia, per sua intima caratteristica annulla questa immediatezza. Tutto questo per dire che l’economia e anche la tecnologia hanno svuotato completamente il calcio dei propri valori collettivi, identitari, anche emotivi e sentimentali (ci sono solo due cose nella vita che non si possono cambiare nel modo più assoluto: la mamma e la squadra di calcio).
Il calcio è morto e l’assassino si chiama business

Insomma, anche il calcio come tutto il resto è morto e l’assassino si chiama business. Con buona pace di Rita Pavone e delle amate partite di pallone della domenica che hanno scandito la nostra vita per lungo tempo. Il lettore potrebbe obiettare che del calcio e dell’immenso baraccone che si porta appresso se ne potrebbe benissimo fare a meno. Certamente, soprattutto dell’immenso baraccone che si porta appresso che è poi quello che ne ha decretato la fine. Ma il fatto è che la fine del calcio è solo metafora triste della fine di un mondo più semplice, certamente più limitato (la globalizzazione, cioè il nulla, era ancora di là a venire) ma anche più umano. Un mondo nel quale si viveva meglio perché, pur con tutti i suoi limiti, era appunto un mondo misura d’uomo. Amen.

“… Perché perché, la domenica mi lasci sempre sola per andare a vedere la partita di pallone, perché… perché… una volta non ci porti pure me?”
La partita di pallone, Rita Pavone

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