“Dialogo col cinghiale” di Enzo Parisi

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Agosto 2010. Avevo comprato un bosco. Di oltre un ettaro. In Liguria i terreni incolti sull’Appennino costano relativamente poco e quindi sono alla portata della mia borsa. Il rapporto tra il costo di un posto auti (dieci metri quadrati di asfalto) in Genova e di dieci metri quadrati di bosco appenninico retrostante è di circa 1.500 a 1. Follia dei tempi moderni.

E’ un bosco prevalentemente di ritorno. Sono terreni che in passato, specie in tempo di guerra, erano stati coltivati. Ma da 50 anni nessuno ci entrava in quanto si erano trasformati in una giungla impenetrabile di alberi caduti e di rovi, vitalba e edera. Ma la gioia di possedere un bosco mi dava una carica eccezionale per pulirlo, fare dei sentieri (sempre a mano, mai con la ruspa). Il bosco era mio! Finché dietro un grosso nocciolo non è spuntato lui: il cinghiale. Il cinghiale (da cui l’uomo ha derivato il maiale) era sparito nel nostro territorio. Lo hanno reintrodotto negli ultimi due decenni i cacciatori, che non avevano più grosse prede a disposizione. E da qualche anno è diventato una specie invasiva, che se dà soddisfazione ai cacciatori è invece la maledizione dei contadini e dei coltivaotori dilettanti come me perché distrugge sistematicamente gli orti.

Il cinghiale mi guardava intensamente con un misto di preoccupazione e di orgoglioso coraggio. Io sinceramente lo guardavo con maggiore paura. Non mi sentivo, io cittadino, nel mio elemento. Lui invece si sentiva proprio a casa sua. Ma lui era a casa sua. E mi guardava. fermo.

“Che ci fai tu qui? Non ti ho mai visto. Non c’è il fucile nelle tue mani. Altrimenti non mi sarei fatto vedere. Questo mi rassicura. Ma cosa vuoi?”. Anche io ero fermo. Non indietreggiavo ma nemmeno avanzavo. “Vedi, sono il nuovo padron del bosco. Sono qui per pulirlo e per farlo tornare un luogo splendido; un bosco godibile, arcadico. Quando sarà pulito inviterò i miei amici e li porterò a raccogliere i funghi e a mangiare le more e le nocciole”. Lui girò la testa e in lontananza mi fece scorgere la sua famiglia con moglie e tre porcellini striati. Il bosco è già bello così mi fece capire. Chi se ne frega dei tuoi amici. Sono io che ci vivo tutto l’anno, anche con la pioggia, la neve e il gelo. Tutti i giorni sono qui, senza un riparo riscaldato. E’ qui che allevo i miei piccoli, qui che li difendo quando il caldo inizia a diminuire e comincia la caccia. Conosco questi alberi uno a uno. Specie le querce, i rovi e le vitalbe, che per te sono infestanti mentre per me sono ostacoli ai cacciatori. Questa è la mia casa, dove vivo e passo la mia esistenza. Questa è tutta la mia vita.

I nostri sguardi si sono abbassati e ci siamo separati, tornando entrambi indietro sui nostri passi. Da quel momento la mia idea di possesso del bosco mi apparve in tutta la sua illusorietà. La mia proprietà è riferita ai rapporti con gli altri umani, e solo a loro. Il bosco è di tutti gli esseri che lo vivono. E’ degli alberi, è dei funghi,è dei cinghiali, delle formiche, della rosa canina e degli uccelli che fanno ascoltare il loro canto. Di cosa siamo padronoi noi umani? Di una delimitazione catastale. Il resto è vita. Noi siamo comproprietari di un bene comune e dobbiamo essere compartecipi della bellezza che ci avvolge.

Speravo che lui avesse capito i miei sentimenti e non mi vedesse d’ora in avanti come un pericolo. E avevo deciso di recintare l’orto, così non avevo più motivo di prendermela con lui.

Durante l’inverno 2010-2011 è arrivata una terribile galaverna, fenomeno climatico che in Liguria si presentà con periodicità, che ha spezzatro alberi interi, e la cura del bosco si è fatta più intensa. Non ho più incontrato il cinghiale. Ma ricordo una domenica mattina d’autunno l’abbaiare dei cani e gli spari dei cacciatori. E conosco l’orgoglioso sorriso dei falsi padroni della Vita.

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