La guardia bassa, i maiali… e noi

 Il pugno che ti colpisce mentre hai la guardia bassa fa più male. Del resto avere la guardia bassa a volte è normale e perfino necessario perché non si può stare tutta la vita “in guardia”. Bisogna anche rilassarsi e riuscire a sorridere spensieratamente. E’ una cosa giusta.

 Cosa c’entra la “guardia bassa” con i maiali? Mi è successo recentemente di visitare (casualmente, per questo la guardia era bassa) un’attività turistica che è anche azienda agricola, dedita, tra le altre cose, all’allevamento di animali. Sono vegetariano per questioni etiche e morali da oltre 21 anni e vegano da solo 4 e il fatto che abbia impiegato 17 anni a passare dal vegetarianesimo al veganesimo indica due cose: la prima è che avrei dovuto metterci molto di meno. La seconda è che di conseguenza non sono nella posizione di predicare niente a nessuno, men che meno di giudicare nessuno. Questo per chiarire che il senso di questo articolo è esclusivamente di fungere da spunto di riflessione.

Ci si può certamente domandare perché la gente mangia carne e derivati. Credo che le questioni di fondo siano essenzialmente due: abitudine e comodo. Al limite si può aggiungere il gusto, ma credo che questo sia relativo perchè il gusto è un qualcosa che cambia con l’assuefazione o meno del palato a certi cibi. Ad esempio a me che non mangio carne da tanto tempo il solo odore fa venire il voltstomaco, esattamente come il fumo o anche l’alcool. Quindi il gusto, semmai, e’ solo una conseguenza dell’abitudine. E se il discorso dell’abitudine è di comprensione immediata, a quello legato al comodo possiamo dedicare qualche rapida riflessione in più. Essere “comodi” significa non voler mettere in discussione ciò che si fa, non voler mettere in discussione la propria vita, anche e forse soprattutto i propri rapporti sociali. Si è “comodi” per non farsi “prendere in giro” (il che denota insicurezza e conseguente necessità di approvazione altrui) mentre a sua volta chi “prende in giro” attacca per non dover mettere in discussione se stesso. Basta aggiungere a tutto ciò l’enorme apparato massmediatico-pubblicitario mosso dall’industria della carne e dei prodotti ovocaseari (entrambe collegate, sia detto di passata, all’industria farmaceutica) ed un breve ma essenziale quadro del perchè ancora un enorme numero di persone si cibi di di animali ammazzati, nonostante tutte le ragioni (etiche, ambientali, di salute) che ci dicono che non dovremmo farlo.

L’essere umano è un animale fisiologicamente frugivoro. Se fossimo carnivori avremmo denti aguzzi e mandibole atte a spezzare, correremmo veloci come un ghepardo per catturare la nostra preda e la nostra struttura muscolare sarebbe poderosa come quella di un leone, saremmo dotati di artigli per bloccare la preda, di succhi gastrici 25 volte più potenti di quelli umani per la digestione, il nostro apparato digerente sarebbe breve anziché lungo per lo stesso motivo, mangeremmo la carne cruda e sul posto senza dover ricorrere al fuoco per ammorbidirla ecc. L’allontanamento dalla nostra natura provoca inevitabilmente una forma di malattia che non esito a definire “dipendenza”. O forse dovrei dire tossicodipendenza, perché la carne e gli altri derivati animali sono per noi tossici, proprio perché non siamo fisiologicamente predisposti ad assumerli. Con la differenza che questa tossicodipendenza non fa del male solo a noi stessi ma anche e soprattutto agli animali che ne sono le prima vittime.

Queste necessarie premesse per dire che se ho sentito l’esigenza di scrivere qualcosa sulla questione animale non è tanto per convincere qualcuno o per spiegarne le questioni etiche e morali, le questioni “naturali” o quelle di salute. Su questo sono stati scritti milli libri e sono più che sufficienti. Nel caso di questo brevissimo scritto, il punto non è spiegare o provare a convincere, ma piuttosto raccontare ciò che ho provato durante quella mia visita a questa fattoria: in sostanza si tratta semplicemente della condivisione con chi mi legge di una piccola ma significativa esperienza di vita diretta. Conosco bene la realtà degli allevamenti industriali di animali: stabulati, tenuti sotto luci accese per 24 ore al giorno, ingozzati di cibo ingrassante, con le ossa che gli si spezzano sotto un peso abnorme ed innaturale, con i becchi spezzati (le galline), imbottiti di antibiotici perché sono ovviamente malati, spesso picchiati e maltrattati, i piccoli strappati alle mamme appena nati per poi essere immediatamente uccisi (che paradossalmente è anche meglio perché così la loro sofferenza è più limitata). Le condizioni cui sono sottoposti gli animali da allevamento industriale sono semplicemente allucinanti e nessun aggettivo può essere più indicato di questo. Al confronto gli animali che ho visto io stanno passando una vacanza al Grand Hotel degli animali. Eppure… è proprio questo che mi ha colpito. Il fatto, molto semplicemente, è che quando ho visto quegli animali chiusi in gabbia ed impossibilitati a muoversi, quando ho sentito le loro urla, quando ho “sentito” dentro di me cose che nessun libro e nessun video, per quanto crudi, potranno mai far capire… ecco, quel pugno allo stomaco è arrivato forte ed improvviso.

Un libro e anche un video sono “falsi” e fuorvianti perché arrivano all’intelletto e portano a razionalizzare. Alcuni ovviamente riescono anche ad arrivare al cuore, ed è una cosa grandemente positiva ma per la maggior parte non è così. E il fatto è che quando si comincia a razionalizare, a formulare teorie, si può andare avanti all’infinito. Si può razionalizzare che “in fondo siamo onnivori per natura” (provate a catturare un animale a mani nude e senza l’ausilio di nessun aggeggio di alcun genere, cioè secondo “natura”, per vedere se siamo onnivori), oppure domandare “e dove prendi le proteine?” (dove le prendono i gorilla? Nelle foglie e nella frutta magari?!), oppure ancora affermare che “poi quando sei vecchio ti manca il ferro nelle ossa”. Fermiamoci pur qui). La volontà e l’onestà nell’affrontare la questione animale (così come tante altre questioni) non sono mai razionali perché la razionalità è il trionfo dell’irrazionalità (basterà pensare che la specie umana, la sola dotata di razionalità, sta distruggendo il pianeta e con ciò se stessa). La questione animale, se appunto la si vuole affrontare onestamente, non è mai razionale ma semmai sociale, psicologica, e soprattutto emotiva e di cuore. Secondo me è questo il punto. Il punto è che che quando di mezzo ci si mette il cuore, l’istinto, la “pancia”, come nel mio caso quando ho visitato questa fattoria, quelli non mentono. Sanno benissimo ciò che è giusto e ciò che è non lo è. Perché sono puri esattamente come lo è un bambino. Un bambino puro, non contaminato dagli adulti e dal loro mondo che è costretto a vivere, difficilmente sbaglia ed è per questo che dovremmo imparare da loro anziché pretendere di insegnare loro. Quel bambino non sbaglia per un motivo molto semplice: perché è ancora connesso con la Vita.

Allora, la questione non è di voler convincere gli onnivori a diventare vegetariani o vegani nè tantomeno di giudicare chi non lo è. La questione è di provare ad essere onesti con se stessi semplicemente perché è giusto provare ad esserlo. Portate un bambino in un allevamento di maiali e guardate la sua faccia inorridita. Non c’è bisogno di tanti pensieri e ragionamenti. Quella faccia vi dirà tutto. E’ inorridita perché lascia parlare il cuore, perché ascolta il cuore e quello lì (il cuore) sa benissimo che ammazzare quegli animali e poi mangiarseli non va bene; né per loro né per noi. Un bambino ascolta il cuore (lo sa ancora ascoltare) e non si mette a fare i patetici ragionamenti che facciamo noi, abituati come siamo a mentirci su tutto ed a costruirci attorno corrazze per sopravvivere in quell’orribile mondo che abbiamo edificato scrupolosamente come fosse un enorme parco giochi dove tutto è possibile e tutto è dovuto. Mentiamo a noi stessi perché ammettere la realtà significherebbe dover cambiare.

Cibarsi di animali dimostra solamente vigliaccheria, soprattutto nei confronti di noi stessi, e questo per il semplice motivo che la stragrande maggioranza di noi non toccherebbe più carne dovesse uccidere l’animale con le proprie mani o anche solo vedesse le condizioni e le sofferenze a cui questi sono sottoposti. Quei maiali, quegli animali, sono esseri viventi esattamente come lo siamo noi, che li mangiamo non perché “siamo onnivori” o “perché ci fa bene” ma semplicemente perché siamo nati e cresciuti mangiando carne e tutti lo fanno (in realtà sempre meno per fortuna). Lo facciamo, lo abbiamo gia’ scritto, essenzialmente per abitudine e per comodo. In genere però quando si cresce si cambia o perlomeno lo si può fare. Il cambiare e il cercare di migliorarsi dovrebbero far parte del processo di crescita della persona, del suo cammino di Vita. Allora, ripeto, se vogliamo essere onesti con noi stessi, un giorno facciamo questa visita assieme ad un bambino. Poi facciamo una semplice prova: il giorno dopo diamo al bambino una bistecca per cena spiegandogli che è lo stesso maiale che ha visto e magari accarezzato il giorno prima. Faremo un bel regalo, sia a lui che ai maiali. Perché ne faremo un vegetariano per la vita. E chissà che quel bambino, se solo avremo il coraggio di imparare da lui (ci vuole coraggio ed umiltà per imparare dai bambini, due virtù dei grandi) cambi la sua vita, quella dei maiali e la nostra: in meglio ovviamente.

Credo infine che la scelta di non cibarsi di animali o di loro derivati debba essere intesa in prima battuta come una forma di “difesa del più debole” ma si risolva poi, soprattutto, in una questione di cambiamento spirituale ed interiore. Un cambiamento che ci porti a vedere ed a capire quello che è il nostro ruolo e il nostro posto su questo pianeta e che ci porti ad immaginare un diverso modo di rapportarci ad esso e a tutto ciò che ne fa parte; su un piano paritario piuttosto che di dominanza. Perché è proprio quell’ideologia del dominio di cui ci facciamo orgogliosi portatori la prima causa di quell’autodistruzione inarrestabile che una volta avviata non riusciamo più a controllare. Avere il coraggio di rendersene conto e smettere di nutrirci (si fa per dire) e di ammalarci (qui non si fa per dire) di sofferenza altrui non è solo un modo per liberare gli animali ma anche noi stessi. Per un comune futuro migliore.

Il problema della “connessione”

Nel mondo moderno bisogna essere costantemente “connessi”. Non sappiamo più vivere senza controllare la posta elettronica ogni momento, senza sapere le ultime “notizie dal mondo” o quelle del calciomercato (che giocatore ha comprato la Juventus?). Insomma, anche se siamo qua, in qualche modo vorremmo essere , o perlomeno non riusciamo a  staccarci da quel che è (aggiungo purtroppo) il nostro mondo.

Sto viaggiando in Centro America e praticamente ovunque, a meno che non mi trovi in posti davvero isolati, tutti sono connessi, tutti hanno telefoni ultramoderni che io mi sogno, tutti sono isolati. I parchi cittadini sono pieni di adolescenti a smanettare sui tasti (senza parlarsi l’un l’altro), stessa cosa nei chicken-bus (che sono sempre meno chicken-bus e sempre più confortevoli e con l’aria condizionata a palla che ti fa venire il mal di testa dopo cinque minuti che sei salito), stessa cosa nella sala d’attesa dell’ospedale (ero andato a farmi togliere una spina che mi era entrata camminando a piedi nudi nella foresta e non ne voleva sapere di uscire). Tutti sono sempre “connessi”. La prima cosa che ogni backpacker chiede quando arriva in un hospedaje o anche nell’ostello più economico è se c’è il “wi-fi”. E appena scaricato lo zaino subito si “connette”. Per dire che? Per sapere che? Per vedere che?

Da che mondo e mondo, quando i viaggiatori si incontrano in qualche posto mangiano qualcosa assieme, bevono qualcosa assieme, chiacchierano dei loro viaggi, di ciò che hanno visto, dei posti dove andare e di quelli da evitare. Ci si racconta vicendevolmente del proprio paese, della propria vita, magari anche dei propri sogni e dei propri problemi (perché a volte è più facile farlo con qualcuno che probabilmente non si vedrà più). E’ un modo come un altro per creare relazioni e per condividere. Quando si stava in hotel low-budget o negli ostelli si conosceva il personale del posto che vi lavorava, e così, si conosceva di più anche la cultura del paese che si stava visitando.

Questo fino a pochi anni fa. Oggi non più è così perché si è “connessi”. Cosa si fa dunque? Si scrive agli amici e alla famiglia, (sempre le stesse cose ovviamente, così che quando si torna a casa non c’è neppure niente da dire), si mandano le foto fatte (così che quando si torna non c’è niente da mostrare), si va su facebook o su twitter (una ragazza toscana di fianco a me ha scritto: “oggi visto cascata. Ganzo!”) ci si aggiorna su quello che succede nel mondo (cioè niente, son sempre le stesse cose).

Quella “connessione” di cui oggi nessuno pare poter più fare a meno è un prodotto di quella tecnologia senza la quale non sappiamo più vivere. E non a caso, perché il fatto che questa sia buona o cattiva non dipende affatto “dall’uso che se ne fa” come tutti ingenuamente dicono. La tecnologia è prima di tutto una forma di pensiero. E un pensiero “tecnologico” è un pensiero artificiale che non è in grado di comprendere che la vita reale è un’altra cosa. La tecnologia, qualunque tecnologia, ha caratteristiche ben precise e se viviamo in un mondo tecnologico dovremo adattarci ad esso e con ciò prenderemo le stesse caratteristiche di quel mondo; diventeremo macchine (o agiremo come macchine, il che vale uguale), esattamente come quelle macchine che crediamo di governare.

Poche sere fa ero ospite in uno splendido resort immerso nella foresta primaria attorno al Volcan Arenal. Il posto è anche fattoria di autosufficienza (dal cibo ai saponi, produce il 100% dell’energia che utilizza), progetto di riforestazione e conservazione della foresta tropicale, scuola di stili di vita sostenibili e altro ancora. A farla breve, dopo cena, la ventina dei giovani presenti (la metà circa erano lavoratori ticos, l’altra metà volontari che vengono da paesi diversi), si sono tutti, dico tutti, nessuno escluso, “connessi” con il computer, con l’I-Pad (o forse si chiama I-Phone) o con non so che altro (non lo so perché non passo l’esistenza a star dietro ad ogni nuovo gingillo che buttano sul mercato).

Tutti erano “connessi” ma a me pareva che tutti fossero “sconnessi”. Perlomeno sconnessi dalla vita. Quella reale, quella vera. Perché dovete capire che tutt’attorno c’erano i mille suoni meravigliosi della foresta, ma “connessi” come erano,  nessuno li ascoltava. Disconnessi dalla vita appunto. Una volta si chiacchierava, si suonava la chitarra e si cantava. Oggi non più perché siamo “connessi”. A me pare sia l’esatto opposto.

Ed io, che per quanto mi è possibile sono un ostinato antitecnologico, finita la cena me ne sono andato a fare una passeggiata nella foresta nella notte, ho parlato ai cavalli che in cambio mi hanno nitrito e accarezzato i cani che mi hanno leccato la faccia: Ho ascoltato gli uccelli che cantavano e il vento che lambiva le foglie degli alberi. Ho guardato il cielo con molte stelle, stelle che da noi non vediamo più per via dell’inquinamento luminoso. Mi pareva di essere molto “connesso”.

 

LA RESERVA FOREST FOUNDATION: LET’S GET PLANTING

Quache anno fa ho piantato la mia tenda per un mese in un pezzo di terra in Costa Rica di proprietà di un’anziana signora. Il pezzo di terra si trova sul lago Arenal, nella regione del Guanacaste e io le avevo chiesto il permesso ovviamente. “Nessun problema” aveva detto l’anziana signora. “Basta che me lo tieni pulito aveva risposto”. Dopo un paio di giorni di “pulizia” ho piantato la tenda e sono rimasto lì a vivere senza nessun pensiero particolare in testa. MI pareva di essere stato fortunate ma ancora non sapevo di essere stato fortunatissimo. Fu infatti solo dopo qualche giorno che scoprii di avere per confinanti  Roberta Ward Smiley e Daniel Spreen Wilson. 

 

UNA SCELTA DI VITA

Roberta e Dan sono statunitensi e nella seconda metà degli anni ’70 lavoravano in Oregon in fattorie biologiche ante-litteram, prendendosi cura delle mucche da latte (“parlavamo e cantavamo loro tutto il giorno. Le amavamo e loro amavano noi” dice Roberta). Sognavano di possedere una fattoria tutta loro, ma i prezzi della terra negli Stati Uniti erano probitivi per le loro modeste possibilità economiche.

Ci capitò sotto mano un giornale con un articolo sulla Costa Rica. L’articolo spiegava che i terreni per agricoltura e pascolo erano a buon mercato. Vendemmo quel poco che avevamo e due settimane dopo partimmo con un piccolo camper Ford, senza conoscere nessuno nè una sola parola di spagnolo” dice Dan.

Arrivarono in Costa Rica nel Luglio ’83 e vissero per qualche tempo nel loro camper a Pijije, un paesetto di poche anime che si affaccia sulla Interamericana, la strada principale che collega il paese da nord a sud. “I terreni da acquistare per lavorare con le nostre adorate mucche c’erano ed effettivamente costavano poco. Ma il suolo era povero, non pioveva mai ed il caldo era difficile da sopportare per noi che venivamo dal clima dell’Oregon. Di notte guardavamo le montagne che si ergevano in lontananza ad est. Abbiamo chiesto in giro e ci hanno detto che da quelle parti c’era un lago. Un giorno abbiamo deciso di andare a vedere”. Il lago di Arenal sorge a circa settecento metri di altezza sul livello del mare e le piogge in questa zona sono copiose. Sul lato sud-ovest si trova il vulcano (attivo) da cui il lago prende il nome. Grazie a questa combinazione di fattori il terreno (di natura lavica) è molto fertile ed il clima non giunge mai a picchi eccessivi di caldo o umidità. Roberta e Dan intuiscono che quello è il posto adatto. Cercano qualcuno che parli inglese e in capo a pochi giorni comprano un terreno da pascolo di undici ettari. “Era il più grande che potevamo permetterci con le poche migliaia di dollari di cui disponevamo”. I due aprono così la loro finca lechera.

Le cose andavano bene” mi spiega Dan “ma dopo una decina di anni ci rendemmo conto che allevare vacche da latte è un’attività ad alto impatto ambientale. Lasciare un lavoro che ci piaceva e che avevamo costruito con fatica non è stato facile. Ma alla fine abbiamo preso il coraggio a quattro mani, dato via gli animali e deciso di riforestare i pascoli”.

Nasce così, nel 1998 La Reserva Forest Foundation. La loro proprietà si era nel frattempo ingrandita a quaranta ettari. Circa trenta sono tornati ad un grado di foresta secondaria nel breve volgere di otto anni, unicamente lasciando fare la natura. I restanti dieci però erano invasi da un’erba da pascolo di origine africana (non conosco il nome originale né quello scientifico, ma in Costa Rica, poeticamente, la chiamano “stella africana”) particolarmente forte e resistente, e qui la rigenerazione naturale non è stata possibile. Qui per riforestare c’è stato bisogno di intervento umano ma i due non si sono persi d’animo per così poco:  hanno liberato il terreno dalla “stella africana”, sostituendola, metro per metro, con  alberi nativi.

IL METODO DI LAVORO

Roberta e Dan chiamano il loro lavoro oxigen farming, perché, dicono, “quando piantiamo alberi, ciò che facciamo veramente è “piantare” ossigeno”. La Reserva riforesta con mille alberi per ettaro di terreno, utilizzando oltre settanta specie diverse al fine di creare le migliori condizioni possibili per un aumento della biovarietà. Le buche vengono preparate con qualche giorno o settimana di anticipo, dopodiché gli alberi vengono portati sul posto e piantati il giorno stesso. Indicativamente in 8-10 anni si arriva ad un grado di riforestazione secondaria.

Fino ad oggi Roberta e Dan sono stati impegnati in prima persona nell’intero processo necessario alla riforestazione. “Raccogliamo i semi nella foresta e li portiamo alla nostra nursery. Qui li facciamo crescere in bustine di plastica apposite e una volta pronti trapiantiamo gli alberi in campo” mi spiegano. Ma nell’ultimo anno la decisione di dedicare più tempo alla raccolta di fondi ha portato ad un cambio di strategia. Ora La Reserva collabora con “esterni” (scuole del posto, la comunità di indios Malekus di Guatuso, privati) che si occupano della raccolta dei semi e di seguirne la crescita, per poi acquistare le piantine pagandole 50 centesimi di dollaro ciascuna. L’obiettivo, oltre alla maggiore diponibilità di tempo, è di coinvolgere nei progetti di riforestazione le comunità locali, dando loro al tempo stesso un aiuto economico (ed alcuni soggetti in particolare, come nel caso dei Malekus, ne hanno particolarmente bisogno). Nel caso specifico dei privati, il ritorno è doppio: da un lato vengono pagati per crescere le piante, dall’altro, se interessati, ricevono una sorta di “affitto” per riforestare i propri terreni.

 

REPERIMENTO FONDI E STRATEGIE DI LAVORO

Nei primi dieci anni le cose si sono mosse lentamente per mancanza di fondi (provenienti unicamente da donazioni private, principalmente parenti ed amici), ma nell’ultimo periodo le cose stanno cambiando. Il lavoro svolto fino ad ora ha portato grande visibilità e La Reserva ha ottenuto uno spazio dedicato permanente nel sito www.globalgiving.org che assicura una entrata costante. In aggiunta Giant Studios (che ha prodotto il film “Avatar”) ha effettuato una consistente donazione grazie alla quale sono riusciti a portare a termine un importante progetto denominato “Connecting forest islands in Costa Rica”.

La strategia scelta per “convertire” terreni, è quella di pagare un “affitto annuale” (con contratto di durata pluriennale) a privati, che evitano così di dedicarli al pascolo (l’intera zona è ricca di fincas de leche) o alla vendita per speculazione edilizia. Nello specifico il focus attuale è il recupero di corridoi che separano aree boschive per creare un continuum fondamentale per la biodiversità. Gli animali selvaggi in Costa Rica sono tanti e senza questa continuità di habitat naturale le loro possibilità di sopravvivenza si ridurrebbero drasticamente. “Bisogna capire” dice Roberta “che gli animali sono fondamentali per la foresta così come la foresta lo è per loro”. Il benessere di uno è il benessere dell’altro e in ultima analisi il benessere di entrambi rappresenta quello dell’essere umano.

 

EDUCAZIONE AMBIENTALE

La Reserva è anche molto impegnata nell’opera di educazione ambientale coinvolgendo in tal senso le comunità locali. Vengono organizzati incontri e presentazioni nelle scuole, con le comunità indigene, con le varie istituzioni locali. “Questa parte del lavoro mi piace tantissimo perché vedo gli occhi dei partecipanti illuminarsi e questo mi infonde grande energia nel continuare la nostra opera” dice Roberta. Ma più che le presentazioni e le conferenze che si svolgono al chiuso di una stanza, sono i tour (gratuiti per le scuole) a rivestire un ruolo fondamentale nell’opera di educazione ambientale. Vedere una presentazione in powerpoint non è come essere nella foresta e lasciarsi incantare dalla magia dei suoi colori e dei suoi suoni, vedere gli animali e i vegetali, assaporarne i profumi, insomma “viverla” con il coinvolgimento dei nostri cinque sensi. Di ritorno da uno di questi tour nello scorso mese di marzo, Cesár Loaiciga, un alunno di quindici anni del Colegio Tecnico di Tronadora (un paese a pochi chilometri di distanza), ha proposto al preside della sua scuola di riforestare un ampio terreno di proprietà della scuola stessa. Ottenuto il permesso, Cesár ha collaborato con La Reserva nella stesura di un progetto di lavoro e il 1 Agosto, studenti e volontari hanno messo a dimora gli alberi.  

 

LA SENSIBILITA’ DEI TICOS VERSO L’AMBIENTE

Con Roberta e Dan abbiamo avuto lunghissime conversazioni sulla sensibilità dei ticos nei confronti dell’ambiente. Loro sostengono che il fatto di vivere ancora a stretto contatto con la natura rende questa consapevolezza spontanea: “In Costa Rica la Vita è dappertutto: sugli alberi, nel cielo, nella collina di fronte, sotto i piedi. E così viene più naturale coglierne l’importanza e rispettarla”.

E’ inoltre importante considerare che oltre un quarto del territorio nazionale è protetto dallo Stato (oltre ad innumerevoli riserve private) e sono continue le campagne che invitano la popolazione a piantare alberi come mezzo più efficace per combattere il riscaldamento globale nonché la scarsità d’acqua dolce che inevitabilmente il mondo affronterà negli anni a venire**.

Chiaramente lo sviluppo turistico ed economico hanno parzialmente afflitto l’ambiente naturale del paese, ma non nutro dubbi che in generale lo sforzo per la salvaguardia del patrimonio naturale sia qui molto maggiore che in ogni altro paese al mondo.

 

I PROGETTI FUTURI

Come già detto, la strategia che intendono perseguire nella loro opera di riforestazione è quella dell’ “affitto” annuale da riconoscere a proprietari privati. Non solo perchè è ovviamente una strada economicamente perseguibile (l’acquisto richiederebbe somme ingenti), ma anche perché, dice Roberta, “crediamo che il coinvolgimento diretto di una moltitudine sempre più grande di attori, sia fondamentale per il nostro “successo” nel lungo periodo”. Per l’anno 2010 è già stata prevista la riforestazione di numerosi corridoi privati in Costa Rica mentre l’obiettivo ad ampio raggio e lungo termine è quello di riforestare e preservare le foreste della fascia tropicale in tutto il mondo. Proprio in questa ottica hanno appena iniziato ad operare in Ecuador. Dal Giugno 2009 infatti stanno sviluppando un progetto di riforestazione e conservazione su larga scala coinvolgendo proprietari ed istituzioni, in un’area denominata Ayampe che si trova sulla costa pacifica del paese sudamericano.

Roberta e Dan sostengono con passione che l’essere umano debba essere custode della Natura e non il suo carnefice. “Siamo certi che se ridiamo qualcosa alla nostra Madre Terra, essa ricompenserà abbondantemente noi, le generazioni che verranno, e tutte le forme di Vita che sono qui assieme a  noi umani”.

Si dicono anche certi che ci sia un risveglio spirituale in giro per il mondo, una specia di “moltitudine inarrestabile” per dirla con le parole dell’ecologista americano Paul Hawken, che alla fine riuscirà a salvare il nostro martoriato pianeta. “Stiamo lavorando per creare un’armata di persone che pianti alberi scandendo il nostro motto in tutte le lingue: let’s get planting”. Ed io sono stato fortunatissimo a condividere un pezzo della mia vita con persone così speciali.

 

 

 

GLI OBIETTIVI DE “LA RESERVA FOREST FOUNDATION”

-Riforestare e preservare la “cintura” tropicale del pianeta

-Catturare anidride carbonica e dunque ridurre il nostro impatto sulla Terra

-Aumentare la biodiversità

-Educare sull’importanza delle foreste tropicali

-Insegnare a crescere e piantare alberi a chiunque è interessato

-Dare sostegno economico ad attori locali attraverso lavori legati alla riforestazione ed alla conservazione delle foreste tropicali

 

www.lrff.org

Per donazioni a La Reserva Forest Foundation contattare direttamente Roberta Ward Smiley o l’autore dell’articolo.

 

*Una fondazione statunitense che promuove migliaia di piccoli progetti portati avanti da comunità locali in tutto il mondo.

**Una recente campagna televisiva dell’ AyA (Aguas y Alcantarilladas) mostra bimbi sorridenti che piantano alberi. Lo slogan recita: “Sembramos arboles, hagamos agua” (“piantiamo alberi, facciamo piovere”).

ARTICOLO PUBBLICATO SU: AAM TERRANUOVA

Riflessione sulla Terra e su noi stessi.

L’ecologia come la intendiamo, pur con tutte le migliori intenzioni, rimane una categoria concettuale di natura antropocentrica che tende a separare anziché ad unire. Visioni autenticamente ecologiche come quella dell’ecologia profonda percepiscono invece la Vita come una e indivisibile,  ed in quest’ottica l’uomo non gode di nessun particolare privilegio sul pianeta. Per quanto a noi lontana è forse questa l’unica strada efficace per cambiare davvero qualcosa nel nostro rapporto con la Terra e con noi stessi.

 

Alla base dello schema di pensiero che appartiene al nostro bagaglio culturale c’è una visione della vita a beneficio dell’uomo (visione antropocentrica) e quella di un mondo “da migliorare”. Una visione antropocentrica della Vita che considera tutto in funzione dell’essere umano, tende naturalmente a identificarsi con un non meglio precisato “progresso” e quindi con un altrettanto non meglio precisato  “miglioramento”. Questa visione, pur in innumerevoli varianti, è generalmente orientata a un fine (il miglioramento appunto) e appartiene alle tre grandi religioni monoteiste (ma non solo) e con ciò riguarda una grossa fetta della popolazione mondiale. Date le premesse essa mostra inevitabilmente uno spiccato sottofondo materialista e ancorché in taluni casi si adoperi per salvare la “Natura”, poiché la considera un qualcosa al servizio della nostra specie mantiene nei suoi confronti un atteggiamento di sopraffazione. I vari drammi che stiamo vivendo, di cui quello ambientale è solo il più evidente, sono dunque inevitabili con queste  premesse culturali e soprattutto con il potere tecnico che queste premesse hanno portato.

La proiezione sul mondo di una mentalità autenticamente ecologica è completamente differente. Il mondo “è” già semplicemente perché esiste e con ciò  assurdo pensare di migliorarlo; semmai bisogna lasciarlo come lo abbiamo trovato. In quest’ottica le società tradizionali tendono sempre al mantenimento di ciò che “è” e non al suo “miglioramento”. Ciò è reso possibile da uno schema di pensiero che possiamo definire ecocentrico o anche cosmocentrico. Secondo questa mentalità pensare che l’essere umano, che non è che uno degli infiniti fili della tela della Vita, possa incidere su di questa, è inconcepibile. Questa visione naturocentrica/cosmocentrica garantisce una omeostasi, cioè una stabilità ed un equilibrio dell’ecosistema. Proprio grazie ad essa le comunità di cacciatori-raccoglitori si identificano totalmente con l’ambiente circostante (si considerano essi stessi ambiente) e riescono quindi meglio di qualunque altra società a mantenere un ecosistema sano.

Alla base dei costumi, comportamenti e abitudini dei popoli nativi risiede dunque in genere l’importanza assoluta di garantire il più possibile l’ordine naturale; essi percepiscono intimamente che qualunque alterazione del mondo è in realtà un’alterazione di sé stessi.

In ere più moderne il “Tao” cinese esprime concetti molto simili. Il Tao mostra la “Via” indicando ciò che è giusto nell’universo, ivi inclusi i rapporti tra uomini, tra uomini e animali, tra uomini e spiriti, ecc. (mentre tutti gli altri rapporti sono “scorretti, anormali, innaturali”). Simili visioni filosofiche appartengono anche al concetto buddhista del “Dharma” nonché a quello vedico della “Rita”. Anche qui, viene indicata la retta “Via” per il mantenimento dell’ordine cosmico. Ma queste concettualizzazioni, per quanto valide, sono già un prodotto della civiltà e con ciò rimangono, almeno in parte, concettualizzazioni.

La mercificazione dell’esistente e lo sviluppo economico, che sono il tratto distintivo delle società moderne, si situano com’è facile intuire in una posizione diametralmente opposta a quella delle società tradizionali e native. Questa mercificazione si esplicita in maniera fattiva nella sostituzione del vivente con l’artificiale (cioè il non-vivente), nella sostituzione della biosfera con la tecnosfera. La distruzione è insita nel programma del moderno sistema produttivista.

La sola strada percorribile se vogliamo salvare la Terra e con ciò anche noi stessi, va dunque inevitabilmente nella direzione di un cambiamento di paradigma del nostro pensiero, cambiamento che viene ben riassunto nei cardini portanti del movimento dell’ecologia profonda, il primo dei quali è considerare come degna di valore la vita di tutti gli esseri senzienti. In quest’ottica l’azione forse più efficace che possiamo compiere è diffondere informazioni e mettere in dubbio idee preconcette che vengono comunemente accettate in modo acritico solo perché respirate fin dalla nascita; queste idee sono considerate ovvie, ma sono semplicemente imposte dalla cultura dominante. I cambiamenti portati da un cambio “filosofico” sono meno appariscenti ma molto più efficaci. Da questa diversa visione della vita potranno poi seguire azioni che tenderanno a “ricostruire” l’ambiente naturale piuttosto che a distruggerlo. O, per essere più precisi, a lasciare che l’ambiente naturale semplicemente “sia” affinché possa “ricostruirsi” da sé. Perché l’altra grande malattia dell’Occidente, quella del “fare” (anche quando è a fin di bene e con le migliori intenzioni), è un credo duro a morire. Per la cultura occidentale pare quasi che se l’uomo non “fa”, la Vita non va avanti. Ma è l’esatto opposto. Come diceva infatti Lao-Tze, “senza fare nulla, non c’è nulla che non venga fatto”. Basterebbe capirlo.

 

ARTICOLO PUBBLICATO SU: AAM TERRANUOVA

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