La Russia approva un sistema nazionale di carte di credito

Federico Marciano mi segnala questo interessante e potenzialmente esplosivo articolo sulla possibile reazione alla strategia di guerra finanziaria che gli Usa hanno mosso alla Russia.

Veilleur 27 aprile 2014 – Reseau International E’ ufficiale, il parlamento russo ha approvato dopo la terza lettura, l’istituzione di un sistema nazionale di carte di credito. Questo evento non è banale, e le conseguenze renderanno molto nervoso il mondo delle imprese, a partire dai sistemi di pagamento negli Stati Uniti, che li priverà del 40% del mercato globale. RIA Novosti rivela le ragioni delle preoccupazioni sollevate dai leader del sistemo bancario vigente, informazioni riprese timidamente da alcuni media ufficiali come Les Echos, Le Figaro e Le Parisien…     MasterCard preoccupata Il gruppo delle carte di credito MasterCard, fortemente criticato da Mosca per aver bloccato con le sanzioni le operazioni delle banche Rossija e SMP, ha espresso preoccupazione per la decisione della Russia di creare un proprio sistema di pagamento nazionale. “La Russia è un mercato strategicamente importante per MasterCard. In Russia, come nel resto del mondo, lavoriamo in stretta conformità con la legislazione locale. Ecco perché siamo profondamente preoccupati dell’adozione di modifiche alla legge federale sul sistema dei pagamenti nazionale e attualmente studiamo le possibili conseguenze di questi sviluppi per le nostre attività commerciali e quelle dei nostri partner“, leggiamo sul comunicato di MasterCard. La Duma (camera bassa del parlamento russo) ha adottato dopo la seconda e la terza lettura un disegno di legge che prevede la creazione in Russia di un sistema nazionale di carte di credito (NSPK). Dopo l’annessione della Crimea alla Russia, Stati Uniti ed Unione europea hanno imposto una serie di sanzioni contro politici e uomini d’affari russi, così come contro la banca Rossija e la sua controllata SMP. I gruppi per le carte di credito Visa e MasterCard hanno sospeso senza preavviso i propri servizi di pagamento ai clienti di queste istituzioni finanziarie. Il Presidente Vladimir Putin ha detto che i gruppi Visa e MasterCard potrebbero perdere il mercato russo “cedendo alle pressioni politiche estere“. Secondo alcuni economisti, Visa e MasterCard attualmente forniscono il 90% dei pagamenti effettuati con carte di credito in Russia, secondo RIA Novosti. Altre informazioni confermano un’implementazione relativamente veloce, spiega Andrej Nesterov, direttore delle comunicazioni aziendali delle carte di pagamento universale: “Il sistema di pagamento PRO 100 è tecnologicamente pronto a fornire prestazioni nazionali nel prossimo futuro.  Stimiamo che ci vorranno un paio di mesi con le principali banche russe, che rappresentano oltre il 40 per cento del mercato, già collegate al sistema di pagamento PRO 100…“, secondo Russia Today. Ciò si aggiunge alle sanzioni energetiche che possono essere imposte dalla Russia all’Unione europea [1], non ancora verificatesi ma che potrebbero concretizzarsi rapidamente in caso di conflitto, o se nessuno paga il conto ucraino. Inoltre, la nuova alleanza economico-energetica forgiata tra Mosca e la Cina [2] a sua volta abbandona il dollaro [3] [4]. Mosca e Pechino affermano la loro cooperazione per costruire un porto in acque profonde in Crimea [5], indicando ancora che non hanno nessuna intenzione di cedere alle pressioni politiche dell’occidente, né di sacrificare i propri interessi commerciali per la crisi ucraina. Come se non bastasse, la Russia e l’Iran hanno annunciato negoziati sulle forniture di prodotti russi in cambio di petrolio iraniano [6] [7] L’accordo interessa anche gli Stati Uniti, perché ignora le sanzioni contro Teheran. Questa è un’opportunità per Putin di ricordare che è in vantaggio nell’attuale equilibrio di potere. A meno di mutamenti, sembra che sia ormai questione di mesi prima che l’aquila stellata si afflosci sul suo trespolo, trascinandosi le economie basate sul dollaro statunitense e senza alternativa. La caduta dell’impero statunitense è stata annunciata molte volte, ma potrebbe avvenire da se con Obama che, come si dice, “ingoia un boccone più grande di quanto possa masticare“, ritorcendoglisi contro le sanzioni brandite contro la Russia. Il mese scorso l’argomento fu già sollevato da un esperto statunitense che espresse preoccupazione su ciò che sta per accadere, annunciando il crollo economico temuto e ripetutamente respinto degli Stati Uniti.   Una bomba sui petrodollari La Russia è in grado di distruggere l’economia degli Stati Uniti, ha detto il famoso trader Jim Sinclair. Noto per l’accuratezza delle sue previsioni, l’economista dice che la forza del dollaro riposa sull’accordo con l’Arabia Saudita, secondo cui i contratti petroliferi devono essere in dollari USA. Mosca è perfettamente in grado di sbarazzare i petrodollari. Adottando le sanzioni contro la Russia ci si “spara sui propri piedi”. Le sanzioni spingeranno Mosca a creare un proprio sistema di pagamenti internazionale e ad adottare altre misure di ritorsione, è convinto Jim Sinclair. I petrodollari sono ora l’unica valuta reale, dice l’esperto, e la Russia potrebbe facilmente abbatterli richiedendo pagamento non in dollari, ma euro o yuan, per le sue forniture di petrolio. Mosca vuole che la situazione prenda questo corso? L’occidente rischia di escludere la Russia dal sistema di pagamento interbancario SWIFT per punirla per la sua politica in Ucraina. Ma in questo caso si dovrà passare a un’altra valuta, dato che le sanzioni si rivolteranno contro coloro che le adotteranno, è convinto il professor Aleksandr Abramov del Dipartimento Borse della Scuola di Studi Avanzati in Economia. “Da un punto di vista tecnico è abbastanza facile escludere la Russia dal sistema bloccando gli indirizzi delle banche russe. Ma è uno dei principali sistemi utilizzati dalle banche per i pagamenti internazionali. E’ improbabile che oggi Stati Uniti o Europa desiderino utilizzare tale misura, perché i sistemi bancari sono intrecciati e se le banche russe non potranno più utilizzare questo sistema, saranno in ritardo nei pagamenti verso i loro partner occidentali. Ciò sarebbe uno shock per il sistema finanziario e di gran lunga un pericolo più grave del pagamento del petrolio in euro. Mi sembra che il settore finanziario stia emergendo dalla crisi, e non abbia alcun interesse a subire questo tipo di shock“. Il destino dei petrodollari è nelle mani della Russia, che può causare il più grande crollo del Dow Jones della storia. Se ne ha di agitare stelle e strisce, ma la realtà è questa: i russi possono distruggere l’economia statunitense, avverte Jim Sinclair. Mosca non ha fretta di adottare misure, ma intende rispondere “simmetricamente”. Le sanzioni economiche non saranno efficaci e potranno solo spingere i russi ad agire. Il rifiuto temporaneo dei sistemi Visa e MasterCard nel fornire servizi ad alcune banche mondiali, ha già spinto le autorità russe a decidere d’istituire un sistema di pagamenti russo. I vecchi partner come Siemens, per esempio, dovranno presto concludere nuovi contratti con i russi. Loro non sembrano “spararsi sui piedi”. Fonte La Voce della Russia. Così sembra che la macchina sia avviata e nulla possa fermarla, perché anche una de-escalation della situazione in Ucraina non potrà più invertire il processo di de-americanizzazione economica della superpotenza russa dal grande peso negli equilibri mondiali.   5352-07-bankrossiyaNote [1] Russie: Poutine met en garde les dirigeants européens sur l’arrêt d’approvisionnement en gaz [2] Chine-Russie: une alliance de circonstance [3] Chine: Pékin se débarrasse massivement de son stock de dette américaine [4] Etats unis: La Russie retire 100 milliards de dollars d’obligations de la Fed [5] La Chine se tourne vers la Crimée et se montre indépendante vis-à-vis des Etats-Unis (expert) [6] Tensions Russie-Occident: l’Iran, cet atout très dangereux que Poutine pourrait jouer plus vite que prévu [7] Pétrole contre marchandises: Russie et Iran tentent de concrétiser leur accord

“La resa dei conti con la Russia farà male a tutti” di Ambrose Evans Pritchard – fonte: comedonchisciotte.org

 La questione ucraina, come tutto ciò che viene promozionato dai media di regime (tutti i media in realtà lo sono), è il solito specchietto per le allodole. Si tratta del solito schema problema-reazione-soluzione. L’articolo di Evans-Pritchard lo conferma. Buona lettura.

Gli Stati Uniti hanno costruito una nuova arma al neutrone finanziario. Negli ultimi 12 anni hanno affidato ad un dipartimento di elite del Tesoro Usa il compito di affilare gli strumenti per una guerra economica, progettando come mettere il paese (la Russia) in ginocchio senza sparare un colpo.

Questa strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale, sostenuto da una rete di alleati e da una serie di paesi neutrali che, pur se con riluttanza, devono collaborare. È il “Progetto Manhattan” dei primi anni del 21º secolo.

“È un nuovo tipo di guerra, una specie di insurrezione finanziaria strisciante, con l’intento di incidere sulla linfa vitale finanziaria dei nostri nemici, senza precedenti per portata ed efficacia” -dice Juan Zarate, il responsabile del Tesoro e della Casa Bianca che ha contribuito a ridisegnare la politica dopo l’11 settembre.

“Questo nuovo gioco dicevo economico può essere più efficiente e sottile di qualsiasi altro confronto geopolitico del passato, ma non è meno spietato e distruttivo”-scrive nel suo libro: La guerra del Tesoro: lo scatenamento di una nuova era di guerra finanziaria.

Bisogna tener presente che in questo modo Washington può stringere il cappio intorno al collo della Russia di Vladimir Putin, lentamente chiudendo l’accesso al mercato per banche aziende ed enti statali russi per un debito in dollari di 714 miliardi (Sberbank data).

L’arma invisibile è una “lettera scarlatta”, messa a punto secondo quanto stabilito dal Cap. 311 del Patriot Act USA, per cui se una banca si macchia di mancato rispetto delle norme previste – se viene accusata di riciclaggio di denaro o di sovvenzione ad attività terroristiche o di reati collaterali – diventa radioattiva, viene catturata nell’ “abbraccio mortale di un boa conscriptor” come ammette lo stesso Zarate.

Questa può essere una condanna a morte, anche se il creditore non svolge nessuna operazione negli Stati Uniti. Le banche europee non hanno il coraggio di sfidare le autorità di regolamentazione USA e rompono tutti i loro rapporti con la vittima.

Così fanno pure i cinesi, come si vide già nel 2005, quando gli Usa colpirono il Banco Delta Asia (BDA) di Macao, accusandolo di essere stato un canale di pirateria commerciale verso la Corea del Nord. La Cina staccò la spina e il BDA fallì entro due settimane. La Cina poi fece anche una soffiata a Washington quando Putin propose un attacco congiunto sino-russo contro le obbligazioni di Fanny Mae e Freddie Mac nel 2008, per tentare di innescare il crac del dollaro.

Zarate mi ha detto che gli USA possono ” andare da soli “, con le sanzioni se necessario. E quindi poco importa se la UE vuol mettere un piede in Ucraina, gli USA optano per il minimo comune denominatore di mantenere Bulgaria, Cipro, Ungheria e Lussemburgo a bordo. Washington ha la forza di dettare il ritmo.

Il nuovo arsenale fu schierato contro l’Ucraina – ovunque –  a dicembre 2002, quando accusarono le sue banche di riciclaggio di fondi della criminalità russa organizzata. Kiev capitolò in breve tempo.

NAIRU, Birmania, il Nord di Cipro, la Bielorussia e la Lettonia sono state abbattute una ad una, tutte costrette a uniformarsi alle richieste degli Stati Uniti. La Corea del Nord poi fu paralizzata. Ma il primo premio è stato vinto contro l’Iran che, finalmente, è stato portato al tavolo. ” E’ in corso una guerra segreta, su scala globale e di ampia portata. Questa è una specie di guerra nella quale il nemico presuppone di poter sconfiggere la nazione iraniana “, disse l’allora Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad al Majlis. Lui lo diceva ”Si sta facendo una guerra segreta su scala globale di lungo termine. Questo è un tipo di guerra in cui il nemico dà per scontato che potrà sconfiggere la nazione iraniana” – disse l’allora Presidente Mahmoud Ahmadinejad al Parlamento iraniano con aria di sfida. Invece stava prevedendo il futuro.

Il Tesoro degli Stati Uniti deve combattere contro una preda formidabile, il più grande produttore mondiale di energia con un fatturato da duemila miliardi di dollari, con degli scienziati eccellenti ed un arsenale nucleare di prim’ordine: La Russia, che è anche strettamente legata alle economie tedesca e dei paesi orientali. Gli Stati Uniti rischierebbero di mettere in pericolo il proprio sistema di alleanze se dovessero calpestare i loro amici. E’ più o meno la stessa situazione della Gran Bretagna alla metà del 19° secolo, quando grazie alla sua supremazia navale, si permetteva di servirsi delle (presunte?) navi negriere di tutto il mondo, sotto qualsiasi bandiera, mettendo il naso ovunque.

Il Presidente Putin sa esattamente che cosa possono fare gli USA con le loro armi finanziarie. La Russia entrò nel loop quando i due paesi per un po’ sono stati “alleati” nella lotta contro il terrorismo jihadista. Putin diede incarico al lealista Viktor Zubkov – poi Primo Ministro – di gestire i rapporti con il Tesoro degli Stati Uniti.

Zarate ha detto che la Casa Bianca di Obama ha aspettato anche troppo a lungo per fare sul serio, aggrappandosi alla speranza che Putin avrebbe smesso presto di strappare le pagine del libro delle regole del mondo. ”Dovrebbero togliersi i guanti. Più aspettano, più dovranno muoversi pesantemente” – ha detto.

Quella era una escalation calibrata, quando si mandò una lettera scarlatta alle banche russe che aiutavano il regime siriano. Zarate crede che potrebbe essere già troppo tardi per mantenere il controllo dell’Ucraina orientale, ma non troppo tardi per far pagare un prezzo molto caro.

“Se il Tesoro degli Stati Uniti affermasse che tre banche russe sono coinvolte in preoccupanti operazioni di riciclaggio, siamo sicuri che UBS o Standard Chartered non ci rimetterebbero niente?“

Questo potrebbe far mettere delle sanzioni progressive alle imprese della difesa russa, alle esportazioni di minerali e di energia – cercando di non danneggiare troppo le attività della BP in Russia- aggiunge con tatto – e conclude dicendo che basterebbe una stretta su Gazprom, per far fallire tutto il resto.

Sia che siamo pro o contro questo programma, non dobbiamo farci nessuna illusione su quello che significa: Vivremmo in un mondo diverso, dove la S&P 500 si dimenticherà di vedere il suo titolo commercializzato a Wall Street a un valore che possa avvicinarsi a 1.850.

Questa non è un’altra guerra fredda. Non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre.

La Russia ha 470 miliardi di dollari di riserve estere, ma sono già diminuite di 35 miliardi dall’inizio della crisi, perché la sua banca centrale combatte la fuga dei capitali e difende il rublo. Mosca non può gettare, senza pensarci, parte delle sue riserve per evitare una crisi senza che ci sia una contrazione del denaro circolante, aggravando una recessione che è quasi certamente in corso. Il Ministro delle Finanze Anton Siluanov dice che la crescita sarà pari a zero quest’anno. La Banca Mondiale teme invece che sarà -1.8%, mentre Danske Banks dice che potrebbe arrivare al -4%.

Putin non può contare su alleati globali per aiutarlo a superare la crisi. Solo Venezuela, Bolivia, Cuba, Nicaragua, Bielorussia, Corea del Nord, Siria, Sudan, Zimbabwe e Armenia si sono allineate con Putin alle Nazioni Unite quando si è parlato di Crimea, una cosa veramente irrilevante. Eppure, come dice il vecchio proverbio: “La Russia non è mai tanto forte come sembra, ma la Russia non è mai tanto debole come sembra.”

Il Professor Harold James, di Princeton, ricorda gli echi degli eventi precedenti la prima della prima guerra mondiale, quando la Gran Bretagna e la Francia immaginarono di poter usare una guerra finanziaria per controllare la potenza tedesca : rompere gli equilibri che sostengono la finanza mondiale significa che niente potrà più contenerla. Le sanzioni rischiano di innescare una serie di reazioni a catena simili allo shock del 2008. “Lehman era solo un piccolo istituto se lo dovessimo confrontare con le banche austriache, francesi e tedesche che sono oggi altamente esposte al sistema finanziario della Russia. Un congelamento dei beni russi potrebbe essere catastrofico per i mercati finanziari europei – anzi per i mercati globali“ – ha scritto il professore su Project Syndicate.

Forse il Cancelliere George Osborne era all’oscuro dei piani segreti USA, infatti la scorsa settimana ha mandato un avviso a Washington, per informare i banchieri della City di prepararsi alle ricadute per effetto delle sanzioni. “La City è preziosa” – ha detto – “ma questo non significa che i suoi interessi possano prevaricare gli interessi di sicurezza nazionale del nostro Paese”.

Il rischio maggiore è sicuramente una replica ”asimmetrica” dal Cremlino. Gli esperti russi di guerrra-cibernetica sono tra i migliori, e fecero un giro di prova sull’Estonia nel 2007. Un fermo cibernetico di un sistema idrico dell’Illinois nel 2011 è stato attribuito a fonti russe. Non sappiamo se la US Homeland Security possa essere in grado di contrastare un  attacco in piena regola che preveda un “blocco-dei-servizi” alle reti elettriche, ai sistemi idrici, al controllo del traffico aereo, o peggio ancora al ​​New York Stock Exchange, o a Washington stessa.

“Se scoppiasse una guerra cibernetica oggi, gli Stati Uniti perderebbero. Siamo semplicemente un paese molto dipendente e vulnerabile”, disse il Capo del Servizio di Spionaggio USA Mike McConnell nel 2010.

Il segretario alla difesa statunitense Leon Panetta mise l’allerta per un possibile cyber-attack tipo Pearl-Harbour nel 2012: “Potrebbero bloccare la rete elettrica di vaste zone del paese. Potrebbero far deragliare treni passeggeri o, ancor più pericolosamente, far deragliare treni passeggeri carichi di sostanze chimiche letali o potrebbero contaminare la fornitura di acqua nelle grandi città “. Una battuta esegeta per chiedere più fondi al Congresso? Vedremo.

Le sanzioni sono vecchie come il mondo, così come le lezioni salutari. Pericle cercò di spaventare la città-stato di Megara nel 432 a.C. bloccando tutti i suoi commerci con i mercati dell’impero ateniese e cominciarono così le guerre del Pelopenneso che portarono la fanteria oplita di Sparta ad abbattersi su Atene e distruggere tutto. Il sistema economico della Grecia cadde in rovina e in balia della Persia. Questo fu un assaggio di asimmetria.

Ambrose Evans-Pritchard

 

Mio rapido commento. Tengo a precisare al lettore che gli Stati Uniti e il suo governo sono semplicemente il paravento dietro il quale si nascondono i progettisti e manipolatori della situazione. Gli Stati Uniti e il suo governo “servono” in virtù della loro sfacciata superiorità militare, tecnologica e quindi di tutto il peso politico che mettono nell’arena del controllo mondiale. Servono perché hanno già tutte le strutture giuste per portare avanti questo controllo planetario di risorse e popolazioni. Tutto qua. Ma non c’è nessun mistero né personaggio occulto dietro tutto questo.

Mi scrive l’amico Fabio Picchi del Movimento 5 Stelle di Lucca, che pur concordando su tutto quanto scrivo “sentire ripetere in modo ossessivo che “la finanza è uno degli strumenti utilizzati dalle oligarchie mondiali per controllare il mondo”, rende tutto il messaggio meno credibile e realisticamente meno efficace. Con questo non metto minimamente in dubbio che siamo gestiti da oligarchie finanziarie che dettano la linea politica dei governi e che il cittadino comune sia volutamente tenuto allo scuro del sistema; sono anche pienamente consapevole che, nonostante l’apparente evoluzione culturale delle persone e la maggiore facilità di accesso all’informazione, questa situazione si stia progressivamente aggravando. Le proporzioni di quest’enorme truffa ai danni delle persone comuni, sono talmente impressionanti da risultare incredibili ai più: le persone sono portate a non prendere in considerazione ipotesi tanto sconvolgenti, anche quando sono supportate da fatti e ragionamenti plausibili. Quello di cui però sono profondamente convinto, è che tutti gli “attori” dell’alta finanza stiano semplicemente facendo il loro mestiere, che consiste unicamente nel fare soldi e nell’accumulare potere per fare soldi (“mestiere”, peraltro, privo di ogni significato, folle nell’obiettivo e nelle conseguenze e lontano da ogni cosa che renda la vita degna di essere vissuta). Se per mantenere il potere e fare sempre più soldi è necessario alimentare e rendere sempre più totale il controllo su ogni aspetto della vita delle persone, al punto da farne morire di fame molti milioni o ridurne molti altri in condizione di moderna schiavitù, poco importa. In sintesi credo che sia importante sottolineare che il “controllo del mondo” non è altro che un mezzo, un dato di fatto, la conseguenza di logiche e meccanismi scellerati e non il fine. Detto nei termini in cui l’hai detto tu sembra quasi che ci siano oscuri personaggi che aspirano al dominio del mondo in stile “film di fantascienza”.

Non potrei essere più d’accordo. Come ho avuto modo di scrivere sia in “La Favola della crisi” che nell’ultimo “Euroballe”, la finanza e l’economia sono prima di tutto una logica, una visione della vita per così dire, e tutto ciò a cui assistiamo non sono altro che le inevitabili conseguenze di quella logica, di quella visione della vita. Mi permetto di aggiungere che ognuno di noi, a modo suo e al suo livello, è assolutamente corresponsabile della situazione in cui l’intero pianeta, da tutti i punti di vista, versa. Se le oligarchie finanziarie sfruttano noi e ci riducono in povertà non va bene, ma se noi sfruttiamo cinesi e africani per far “ripartire l’economia”, riducendoli alla fame e alla miseria più nera, sì.

Mi diceva anni fa Bert Sacks (un importante pacifista statunitense a cui il governo Usa ha fatto causa perché nel ’97 portò medicine in Iraq contravvenendo l’embargo) “tutti vogliono cambiare il mondo ma nessuno vuole cambiare se stesso”. Per questo il mondo non cambia mai.

Se l’economia reale (cioè la gente) perde, è sempre perché la finanza vince

 La finanza e l’economia reale sono due mondi a parte, lontanissimi tra loro anche se vengono fatti passare per attigui, quasi complementari, addirittura indispensabili l’uno all’altro. La finanza, di riffa o di raffa, non è altro che speculazione, mentre l’economia reale, almeno nella sua accezione più pura e idealistica, può fornire alcuni benefici agli esseri umani (in realtà non è così, ma userò questa linea di pensiero per portare avanti il discorso). Come chiunque in questi ultimi anni ha potuto osservare, l’una, cioè l’economia reale, paga per gli “errori” dell’altra, cioè la speculazione finanziaria. Cioè chi ha subito il danno deve provvedere a pagare per chi il danno lo ha causato, così che chi lo ha causato può continuare indisturbato a causarne altri.

Si pone però una domanda da un milione di dollari. Fatto 1 il valore dell’economia quello della finanza è pari circa a 20. Come può dunque l’economia reale (la gente) a pagare per gli “errori” della finanza? Non può. Questo “pagamento” è matematicamente impossibile visto che 1 non può pagare 20. “1” può rifinanziarsi attraverso gli interessi e così il debito globale (il debito di Stati, aziende, popolazioni) cresce. In qualche modo però l’economia reale (sempre la gente) “paga”. Paga infatti attraverso l’aumento di tasse, imposte, privatizzazioni, tagli sociali e via dicendo, cioè l’economia reale (sempre la stessa gente di cui sopra) si impoverisce progressivamente sempre più cedendo beni e  risorse alla finanza. Nei fatti la finanza domina dunque l’economia reale sovrapponendoglisi, condizionandola, dirigendola. Per farla breve, se andiamo alla radice della questione senza perderci in discorsi demagogici e alla fin fine fuorvianti, la finanza non è altro che uno strumento (tra i tanti) che le oligarchie finanziarie utilizzano per controllare risorse e popolazioni. La finanza, quando si arriva alla resa dei conti, non può che avvantaggiare pochi (pochi che sono sempre meno ma si arricchiscono sempre più) e svantaggiare molti (che proporzionalmente si impoveriscono sempre più).

Forse la gente comune non lo sa ma la finanza specula su tutto: sul grano, sull’acqua, sulle aziende sull’euro, sull’Italia, sulla Grecia, sui terremoti, sugli uragani e via dicendo. Più o meno funziona così. Dei commercianti che vendono il grano capiscono che i downsides della vendita al dettaglio (la merce va lavorata, trasportata, può andare a male, bisogna pagare i dipendenti, i margini sono ridotti ecc.) sono molti e per contro gli upsides molto pochi. Decidono dunque di non vendere più il grano ma di speculare sul grano. Prendono a vendere e a scambiarsi “foglietti” (vedi il libro “La favola della crisi”, autori Hernán Casciari e il sottoscritto, Ed. Enea, 2013) grazie ai quali vendono il grano sempre più velocemente, sempre più freneticamente, ma solo tra di loro. Il grano non viene  venduto davvero, rimane stivato in un qualche magazzino o in una qualche nave cisterna al largo di una qualche costa in attesa di un qualche ok per scaricarlo e portarlo ai supermercati, ok che però non arriva mai o quasi. La Fiat ad esempio, per chi non lo avesse ancora capito, non produce più automobili come fonte di guadagno diretto, bensì come mezzo per poi speculare sui prodotti finanziari grazie (si fa per dire) ai quali la gente compra l’auto a rate. Torniamo al grano.

I commercianti vendono solo una parte infinitesimale del grano che sarebbe a disposizione (il che, sia detto en passant, ne fa aumentare il prezzo). Il loro guadagno non deriverà dunque dalla vendita del grano bensì scommettendo (le scommesse, come qualunque scommessa, sono manipolate alla fonte) sul prezzo futuro del grano; salirà o scenderà? E’ questa la scommessa. Nel frattempo intere popolazioni muoiono di fame ma ai trader la cosa non interessa. Fanno il loro lavoro, così come coloro che lavoravano per Hitler nelle camere a gas facevano semplicemente il loro lavoro. Non entriamo nei dettagli ma al lettore basti sapere che ci sono una quantità infinita di “foglietti” a disposizione per chi vuole giocare a questo gioco. Anche la gente comune può farlo. Siamo pur sempre in democrazia.

La storia delle scommesse però non può andare avanti all’infinito. Alla fine il bubbone scoppia e il grano inizia ad andare a male e allora i commercianti si lamentano. Dicono: “il grano che dovevamo vendere è andato a male. Bisogna che qualcuno ci rimborsi”. Lo Stato chiede ai commercianti: “ma perché è andato a male? Perché non lo avete venduto?” I commercianti rispondono: “Ma chi vende più il grano?! Non avevamo nemmeno il tempo di venderlo, presi com’eravamo dal comprare e vendere “foglietti” (futures) sul prezzo futuro del grano. Oggi è così che si guadagna”. “Ah, bè, allora vi aiutiamo noi” conclude lo Stato. Lo Stato rimborsa così i commercianti per il grano andato a male facendo pagare coloro (la gente) che semplicemente voleva comprare un po’ di grano per farsi del pane in case o delle tagliatelle con un bel sugo di pomodoro.

Quando la finanza specula su un’azienda chi ci rimette sono i lavoratori di quell’azienda. Ma poiché questo vale letteralmente per tutto, in qualunque caso, sempre, chi paga il conto, chi ci rimette, direttamente o indirettamente, è sempre la gente. Il “pagamento” di questo conto non viene però generalmente neppure percepito da parte della gente comune e questo per tre motivi basilari: Il primo è che molti non sanno neppure che questo gioco (scommessa, truffa) esiste. Il secondo motivo è che pure coloro che sono a conoscenza del gioco non ne conoscono le regole. Il terzo e forse più definitivo motivo, sembrerà una semplificazione ma non lo è affatto, è anzi una realtà di una concretezza estrema, è che la gente deve pensare ad arrivare a fine mese (e già ci va bene. Da altre parti hanno il problema di arrivare a fine giornata) e ha comunque le sue beghe quotidiane con cui fare i conti.

Scrive l’ex trader pentito (e condannato, mentre la società per cui lavorava no, come se non fosse stata al corrente delle sue “malefatte”) Jerome Kiervel “ci sono dei prodotti che sono nelle banche che sfuggono completamente alla comprensione della gente e sono delle bombe a orologeria: i subprime 10 anni dopo hanno creato la crisi che conosciamo, e oggi in banca ci sono nuovi prodotti molto complessi che chiamiamostrutturati”. Come i “derivati climatici” fatti sulla temperatura (in pratica delle ‘scommesse’ sull’andamento del clima e della temperatura terrestre, ndr) che non sappiamo che cosa faranno tra 10 anni. Non è un caso isolato. Ce ne sono diversi. Oggi i bilanci delle banche non sono controllati, non sono leggibili, non sono comprensibili per i comuni mortali”.

Siccome credo che nessuna persona di buon senso ammetterebbe un meccanismo del genere, la conseguenza, sempre per le persone di buon senso, è che la finanza non dovrebbe esistere o che comunque come minimo non dovrebbe rompere i coglioni all’economia reale. Lo ripetiamo: la finanza è uno strumento, uno tra i tanti che le oligarchie finanziarie utilizzano per fare la guerra ai poveri (la gente, le popolazioni).

La finanza oggigiorno governa gli Stati al posto dei governi, quindi andare a votare non serve a nulla se non a rinforzare il meccanismo. Per aiutare il cittadino comune a capire (il cittadino comune è preso da tante beghe che non ha tempo per interessarsi di queste cose, anche se il tempo per seguire il programma idiota in tv o per cliccare che “gli piace” qualcosa su Facebook lo trova sempre), gli ricordiamo che nel 2008, quando molte banche stavano per fallire sono stati proprio i governi a salvarle perché “too big to fail”. Cioè le ha salvate l’economia reale, cioè la gente, con le tasse che paga, con le privatizzazioni, con i tagli sociali. Ma perché, si domanderà il cittadino comune, la politica è intervenuta a favore delle banche? Semplice, perché come spiega sempre Kiervel, “sono le banche che finanziano i debiti degli Stati”. A questo punto sempre il cittadino comune si domanderà perché mai gli Stati dovrebbero farsi finanziare dalle banche, cioè dal mercato, invece di finanziarsi da sé. E’ questo il grande mistero dei nostri giorni, se non fosse che in realtà non c’è nessun mistero. Il motivo si chiama “cessione della sovranità monetaria” da parte degli Stati. Si chiama anche signoraggio, alla faccia di chi sostiene che non esiste. Nel frattempo la gente deve fare sacrifici (le chiamano misure di austerity) per ridare fiducia ai mercati anche se ovviamente non ne capisce il perché. Ma la colpa di questa situazione, è della gente o della finanza? E se è della finanza, perché è la gente a dover pagare? Lo ripetiamo per la terza e ultima volta: perché la finanza è uno tra i tanti strumenti che le oligarchie finanziarie utilizzano per controllare il mondo (risorse e popolazioni). Tutto qua.

 

 

 

Liberi dalla civiltà: un inno al primitivismo

Riporto con piacere l’intervista di Giovanni Fez all’amico Enrico Manicardi, autore di due libri di critica radicale alla civiltà.Intervista pubblicata su www.ilcambiamento.it . A seguire il link: http://www.ilcambiamento.it/culture_cambiamento/liberi_dalla_civilta_primitivismo.html

 

Enrico, come chiunque assume posizioni scomode e critiche, suscita inevitabilmente reazioni non indifferenti: o si è d’accordo con lui o lo si critica aspramente. Spesso gli attacchi sono personali, confondendo il messaggero con il messaggio (attaccare il messaggero ci permette di non prestare la dovuta attenzione al messaggio). Il fatto è che con le sue approfondite e scomode riflessioni Enrico mette in crisi le (finte) sicurezze di noi tutti. I suoi scritti passano per “provocatori” ma conoscendolo bene posso assicurare che Enrico non vuole provocare nessuno. Vuole solo capire come e perché siamo arrivati al punto completamente folle a cui siamo arrivati. Non voler vedere la follia del mondo contemporaneo significa semplicemete vivere con la sindrome del diniego incorporata (che è una forma di autodifesa inconscia della mente per sopravvivere psicologicamente perché la realtà sarebbe altrimenti troppo dura da accettare) incorporata. Viviamo in un mondo “capovolto” e voler far passare questo “capovolgimento” come una sorta di evoluzione della nostra vita sulla terra è la vera follia. Enrico non vuole provocare nessuno, cerca unicamente di capire quando e perché questo “capovolgimento” ha avuto inizio. Magari per provare a salvarci.

 

Liberi dalla civiltà: un inno al primitivismo

“Liberi dalla civiltà” e “L’ultima era” sono i suoi libri, dal titolo evocativo. Lui, Enrico Manicardi, ha 48 anni, avvocato, appartiene da una vita al movimento libertario, amico del filosofo John Zerzan, di cose da dire ne ha tante, le ha condensate nei suoi lavori. Qui ce ne propone una provocatoria sintesi: l’analisi delle origini della società, degli errori strutturali, delle aspirazioni e della possibile “medicina”.

di Giovanni Fez – 4 Marzo 2014

Nei tuoi libri parli di Primitivismo, di critica radicale alla civilizzazione e sottolinei che si tratta di una riflessione rivolta all’attualità: puoi spiegarci meglio?

Il Primitivismo è un’analisi delle origini della civiltà, del mondo in cui viviamo. E’ un’analisi delle circostanze che hanno portato alla situazione attuale, una riflessione concentrata sull’attualità perché il Primitivismo non guarda al passato meno prossimo della storia umana da una prospettiva puramente accademica o retorica, ma cerca di trarre da questo nostro trascorso primitivo tutti gli spunti e le intuizioni possibili per cercare di rendere vivibile il presente che ci appartiene.

Quali sono questi spunti?

Per più di due milioni di anni abbiamo vissuto come raccoglitori-cacciatori nomadi, senza dominio, senza governi, senza sfruttamento, senza sovrastrutture ideologiche e culturali; e abbiamo vissuto vite libere, sane, serene, egualitarie. Questa non è un’utopia, ma un dato di fatto accertato “sul campo” e ormai riconosciuto anche dall’ortodossia scientifica. Studiando la vita dei raccoglitori-cacciatori nomadi ancora esistenti oggi e confrontando gli studi effettuati in tutte le parti del mondo, si è scoperto che i raccoglitori che hanno potuto preservare uno stile di vita originario vivono molto meglio di noi e godono di un’esistenza sostanzialmente libera, gioiosa e gratificante. Kevin Duffy, antropologo americano che ha vissuto per anni coi Pigmei Mbuti, l’ha riassunta così: «provate a immaginare un’esistenza in cui la terra, la casa e il cibo sono gratuiti, in cui non esistono dirigenti, capi, politica, crimine organizzato, tasse o leggi. Aggiungetevi il vantaggio di far parte di una società in cui tutto è condiviso, in cui non esistono né poveri né ricchi, in cui felicità non significa accumulo di beni materiali».

Cosa ci ha messo, secondo te, sulla strada di una distruttività sempre più ampia e accelerata?

Un cambio di mentalità. Circa diecimila anni fa abbiamo stravolto il nostro modo di vedere le cose: l’avvento dell’agricoltura, considerata l’atto di nascita della civiltà, è l’artefice di questo stravolgimento. Fino a quel tempo, e per centinaia di migliaia di generazioni, gli uomini avevano considerato la Natura un “soggetto”, una Madre (Madre Terra). La coltivazione ha stravolto quel paradigma perché ha fatto della Terra un oggetto. Con l’agricoltura la terra non è più qualcuno, ma qualcosa: qualcosa da manipolare, da sfruttare, da mettere a profitto. Una volta acceso il motore della reificazione (e cioè della trasformazione del vivente in cosa) la macchina civilizzata si è messa in moto e si è diretta verso una sempre maggiore reificazione di tutto e di tutti: dopo le terre sono stati reificati gli animali (nascita dell’allevamento), poi le donne (nascita della società patriarcale), poi i maschi (nascita della schiavitù, della servitù della gleba, del lavoro salariato). Oggi che questa ossessiva riduzione del vivente in cosa ha snaturato ogni elemento della Terra, noi uomini ci concepiamo come oggetti, ci trattiamo come oggetti, ci classifichiamo scientificamente così e come tanti oggetti ci sfruttiamo gli uni con gli altri. Tanto è vero che quel termine agghiacciante col quale definiamo la Natura, e cioè “risorsa” (che vuol dire appunto “capitale”, “cosa da sfruttare”), lo utilizziamo anche per definire noi stessi: i lavoratori sono diventati “risorse umane”, i migranti sono definiti “risorse economiche” e persino i bambini sono diventati “risorse del futuro”.

È questo il significato della crisi di oggi?

Certo, ma non solo. Oggi tutti parlano di crisi, tutti ne sembrano consapevoli, ma quel che sfugge, a mio avviso, è un fatto essenziale: la crisi che ci attanaglia non è una crisi nel mondo moderno, ma una crisi del mondo moderno; il suo naturale epilogo.

Pensi insomma a un problema strutturale del nostro stile di vita?

Dai tempi dell’avvento dell’agricoltura “usare”, “sfruttare”, “esaurire” rappresentano le sintesi concettuali che meglio descrivono il nostro modo di rapportarci agli altri e a noi stessi; oggi siamo arrivati a fine corsa. Non solo perché è rimasto assai poco da sfruttare, ma soprattutto perché questa mentalità ci sta traghettando verso l’autodistruzione. Il riscaldamento globale sta uccidendo la biosfera, le foreste pluviali vengono abbattute, i mari si stanno acidificando, l’aria è resa irrespirabile da ciminiere, inceneritori, nano-polveri, scie chimiche; aumentano le specie in via di estinzione; si fanno guerre ovunque. Allo stesso tempo la vita umana è sempre più passiva, litigiosa e artificiale. Come possiamo credere che questo stato di cose sia solo accidentale e passeggero? Come possiamo pensare che il problema che abbiamo sia nella morsa dello spread, nel PIL, nell’inflazione o nella politica immorale di questo o quell’altro partito? Io penso che si possa dire che abbiamo un problema che riguarda il nostro modo di vedere le cose, la nostra mentalità.

Esiste una “medicina” e quali potrebbero esserne gli ingredienti?

Questo è uno dei punti cruciali dell’analisi Primitivista, un punto che la distingue da ogni movimento alternativo. Prima di chiederci cosa fare, dobbiamo cominciare a porci una domanda ancora più importante: “Perché accade tutto questo?”. Pensare di risolvere un problema senza prima essersi domandati quale sia il problema è assurdo. Significa solo prendersela con i sintomi esteriori e questo fa parte del problema. I sintomi stanno dalla nostra parte: sono il segnale di un corpo sofferente che ci avverte dell’esistenza di un problema a monte. Se sopprimiamo i sintomi senza chiederci cosa li abbia generati – proprio come fanno tutte le medicine – non soltanto non risolveremo mai il problema a monte, ma ci precluderemo ogni possibilità di comprendere quale esso sia. Eppure, se ci pensiamo bene, viviamo in un mondo che ci condiziona tutti i giorni: di fronte al manifestarsi dei sintomi di un mal di testa la nostra preoccupazione è togliere il mal di testa, non capire perché l’abbiamo; di fronte all’alzarsi della temperatura corporea la nostra preoccupazione è abbassare la febbre, non capire perché si è alzata. Uguale facciamo nel campo sociale: di fronte al crescere di rifiuti urbani la nostra preoccupazione è come toglierli via da sotto il naso, non capire perché abbiamo cominciato a produrne così tanti; di fronte al crescere dell’inquinamento ecologico la nostra preoccupazione è come sopprimerlo con trovate geniali, non capire perché lo generiamo. Ecco perché dico che siamo arrivati a fine corsa e che il problema che abbiamo riguarda il nostro modo di vedere le cose. A forza di buttare la spazzatura sotto il tappeto, il tappeto sta ora per esplodere. Vogliamo continuare così? Vogliamo fare come ci suggerisce qualche furbetto quando ci consiglia di cercare un altro tappeto? Io penso che sia venuto il momento di cambiare registro: di cominciare a mettere in discussione la pratica di gettare la spazzatura sotto il tappeto e di provare a capire perché siamo indotti a fare in quel modo. Questo è lo spirito del Primitivismo.

Quali dunque le cause?

Per guardare alle cause di un problema c’è un solo modo: andare indietro fino alle sue fonti. In passato vi abbiamo provato, solo che, ogni volta che ci siamo imbarcati in questo viaggio a ritroso nel tempo, ci siamo sempre fermati troppo presto. Siamo talmente condizionati dalla nostra mentalità civilizzata che ci è sempre parso impossibile pensare a questa come alla causa di tutto. E allora abbiamo pensato che il problema fosse nei sintomi di questa mentalità: nella nascita della società dei consumi del secondo dopoguerra, per esempio, o nel sorgere dell’organizzazione di massa di inizio Novecento, o nel successo dell’industrializzazione del secolo precedente. Naturalmente, tutti questi fenomeni hanno contribuito a rendere il quadro attuale ancora più degradato, ma è sufficiente fermarsi agli inizi dell’Ottocento e alla nascita del capitalismo industriale per individuare le fonti della crisi di oggi? Io penso di no, anche perché l’autoritarismo e l’ingiustizia sociale c’erano anche prima del sorgere della società industriale, esattamente come c’era il sessismo (con le sue discriminazioni di genere), la politica (coi suoi imbonimenti e le sue illusioni), l’economia (con le sue logiche produttivistiche e la sua cultura della scambio). Prima dell’Ottocento c’era lo sfruttamento ambientale e l’inquinamento ecologico. Per non parlare poi della guerra o della schiavitù, che non sono certo delle invenzioni della società industriale. Se vogliamo guardare alle fonti della crisi di oggi dobbiamo andare ancora più indietro. E andando ancora più indietro si giunge necessariamente all’avvento della civiltà, e a quel cambio di paradigma di cui si parlava prima.

La tendenza alla distruzione del mondo è forse insito nella natura umana?

Questo è quello che si sente sempre affermare da tutti, compresi i leader dei movimenti alternativi. Ma è un modo di vedere le cose un po’ troppo riduttivo: serve solo a consolarci e ad assolverci, facendoci credere che il mondo triste, autoritario e tossico in cui viviamo sia inevitabile. Non è così. Se per più di due milioni di anni gli umani hanno vissuto vite libere, serene, gratificanti, e in soli diecimila anni sono arrivati fin sull’orlo del precipizio, mettendo a repentaglio la loro esistenza sul Pianeta e la vita stessa del Pianeta, il problema non è l’umanità. Non erano forse umani gli individui che vivevano nel Paleolitico? Non lo sono forse quei raccoglitori-cacciatori che ancora oggi vivono in perfetta armonia con la Natura? Non è l’uomo il problema del mondo, ma l’uomo civilizzato; ossia l’essere umano irreggimentato dalla civiltà: dalle sue categorie, dai suoi valori, dai suoi processi pervasivi che invadono la vita di tutti. Il problema, insomma, non è l’umanità ma la civiltà!

In questa visione delle cose non si rischia di idealizzare troppo la vita primitiva?

Idealizzare il nostro passato umano fino a trasformarlo in un mito è qualcosa di stupido, esattamente quanto credere a qualsiasi altro mito. Quando dico che per milioni di anni i nostri avi primitivi hanno condotto esistenze serene, stimolanti, sane, egualitarie, nel perfetto equilibrio armonico con la Terra e nella condivisione, non intendo dire che quelle vite fossero prive di vicissitudini e di problemi. Difficoltà e traversie c’erano senz’altro ed è facile supporre che fossero anche tante. Ma erano avversità rapportate alla capacità che gli umani hanno di affrontarle e di provare a risolverle: questo è ciò che fa la differenza. Un infortunio, un periodo di siccità, l’incontro ravvicinato con una belva possono essere fatali, ma restano pur sempre inconvenienti potenzialmente risolvibili se si può far affidamento sulle proprie preservate forze e capacità. Oggi, invece, i problemi che ci sono gettati addosso dal  mondo artificiale in cui viviamo non sono più risolvibili da nessuno di noi. Cosa possiamo fare contro lo scoppio di un reattore nucleare? Cosa possiamo fare di fronte alla colata a picco di una petroliera e all’ecatombe rappresentata da una marea di petrolio riversata in mare? Cosa possiamo fare contro il fatto che l’economia contempli l’esistenza di cicliche depressioni monetarie? Nulla. Abbiamo trasformato un mondo a “misura di natura” in un mondo alieno a noi stessi e alla Natura, e quello che possiamo fare ora è solo subirne le conseguenze: impotenti e rassegnati. Il nostro stato di costante infelicità, la nostra frustrazione quotidiana, lo smarrimento nel quale siamo confinati derivano anche dalla perduta capacità di saper far fronte ai problemi che ci coinvolgono e dall’umiliante necessità di dover dipendere sempre più passivamente dai ritrovati che ci vengono venduti come risolutivi.

La nostra vita, dunque, non è più nelle nostre mani?

Esattamente! È questa la grande differenza che fa della nostra vita moderna una triste e penosa pratica da sbrigare e della vita primitiva invece un’esistenza invidiabile, non l’assenza di drammi o problemi. I primitivi avevano (e hanno ancora) la loro sorte in mano, noi non più. Siamo in balìa degli effetti di quel costrutto artificiale che abbiamo sovrapposto alla Natura e che chiamiamo civiltà. Quando agli etnografi che vissero coi membri di comunità di raccolta e caccia fu chiesto quale fosse il carattere distintivo di uno stile di vita primitivo rispetto a uno civilizzato, la risposta fu unanime: l’autonomia. Ogni essere vivente, dalla felce all’elefante, è autonomo e autosufficiente: noi esseri umani civilizzati non lo siamo più. E non lo siamo più perché la civiltà è appunto un processo che tende ad espropriarci di tutte le nostre capacità di specie per metterci alla mercé dei suoi rimedi. L’economia ci ha tolto la capacità di saperci sostentare da soli e ci ha reso tutti dipendenti da essa; la tecnologia ci sta rendendo incapaci di compiere qualsiasi attività, anche la più fisiologica, senza la mediazione dei suoi strumenti; la politica ci ha insegnato a delegare ogni aspetto della nostra vita a qualcun’altro e ora sappiamo soltanto votare, incaricare, nominare qualcuno al posto nostro. La nostra esistenza non è più nelle nostre mani: dipende dal denaro e dalla schiavitù del lavoro; dipende dall’arrivo di una certa fornitura alimentare in un ipermercato; dipende dal fatto che un filtro antiparticolato funzioni, dipende da una connessione ad internet, da una presa elettrica. Non siamo più in grado di fare nulla con le nostre mani perché ci sono le macchine che lo fanno per noi; non siamo più in grado di fare nulla con le nostre gambe perché ci sono le auto che provvedono; non siamo più in grado di fare nulla nemmeno con la nostra testa perché ci sono i computer. Nel mondo civilizzato stiamo diventando disabili! O, com’è stato scritto: “siamo diventati polli in batteria: se s’interrompe il flusso del mangime, siamo tutti morti”. Se vogliamo provare a uscire da questo cerchio chiuso, allora, la prima cosa che possiamo fare subito è diventarne consapevoli. Ci raccontano che la civiltà ci ha reso più forti dei primitivi, mentre invece ciò che essa provoca è l’effetto diametralmente opposto: più ci civilizziamo, più dipendiamo dai servizi del Sistema e dunque siamo sempre più deboli, insicuri, bisognosi di affidarci a qualcuno o a qualcosa. La civiltà non ci ha liberato la vita, ce l’ha messa in gabbia: questa è la vera crisi!

Come uscirne?

Innanzitutto riconoscendo che siamo prigionieri, primo passo doloroso. Siamo stati educati a credere alla civiltà come a un processo d’emancipazione, irrinunciabile e nobilitante. Sentiamo fisicamente il bisogno di tutto quello che il mondo moderno ci offre: beni, servizi, denaro, potere. Ma abbiamo bisogno di tutto ciò solo perché siamo stati espropriati della capacità di vivere senza. Come potremmo fare oggi senza elettricità? Eppure solo due secoli or sono tutti ne facevano a meno. Come potremmo vivere senza cellulari e computer? Eppure solo vent’anni fa vivevamo lo stesso; e le nostre esistenze di allora, quelle dei nostri genitori e dei nostri nonni non erano meno intense solo perché non esisteva Facebook, Twitter o simili. Noi crediamo di aver bisogno di tutte queste cose solo perché ne siamo stati resi dipendenti. In pratica, come aveva intuito perfettamente l’anarchico Errico Malatesta già nell’Ottocento, la questione della nostra prigionia è sempre la stessa: e cioè quella dell’essere umano legato che, essendo riuscito a vivere malgrado i ceppi, crede di vivere grazie ai ceppi. Noi non viviamo grazie ai rimedi della civiltà ma nonostante quelli e la capacità di rendercene conto è determinante.

Come definiresti questa condizione di dipendenza?

Domesticazione. La vita civilizzata non è un’esistenza libera a contatto con il mondo naturale: è una vita in cattività. Siamo diventati degli animali addomesticati: animali che sono stati appunto prosciugati di tutte le loro capacità di autosufficienza, resi dipendenti dai rimedi venduti dal Sistema e chiusi in gabbia. In questa gabbia dalle sbarre invisibili viviamo come derelitti: supplicando l’arrivo del guardiano di turno che ci venda la dose quotidiana di cibo industriale che ci distruggerà la salute; mendicando le prestazioni prezzolate del veterinario di turno che ci darà il colpo di grazia con le sue medicine, rendendoci sempre più dipendenti dalla loro somministrazione; agognando, come degli ebeti, l’arrivo di qualcuno che ci distragga con i suoi spettacoli da baraccone, con la sua pornografia, col suo gioco d’azzardo, o che ci faccia ridere con le sue sit-com. Si chiama appunto domesticazione ed è la fase successiva al dominio: finché costringo qualcuno a stare in prigione con la forza, lo comando; ma quando l’avrò convinto a starci volontariamente, l’avrò addomesticato. Non scapperà più, nemmeno se aprirò la gabbia in cui è recluso. Perché si crede fortunato, si crede libero.

Pensi sia possibile affrancarsi da questo stato?

Non è facile mettere in discussione radicalmente il proprio stile di vita, il proprio modo di pensare, di sentire, di agire, le proprie finte certezze di carta. Non è facile provare a uscire dalla gabbia nella quale siamo nati e nella quale sono nati i nostri genitori e i nostri avi da diecimila anni. Ma non abbiamo altra possibilità. Anche perché qui non si tratta soltanto di esser stati ingabbiati e resi inerti. Qui si tratta si essere stati ingabbiati sul vagone di un treno che procede impazzito verso il dirupo: se non ci affretteremo a provare a fermare questo treno, o quanto meno a scendere per provare a vivere senza i suoi servizi, finiremo anche noi nel baratro.

Insomma, occorre stravolgere l’attuale mentalità. Ipotizzi dei tempi perchè ciò possa accadere?

Il treno diretto verso il precipizio non corre a una velocità tale da rendere impossibile il salto. E poi si ferma spesso alla stazione, per raccogliere nuovi passeggeri. È di questo che possiamo approfittare: staccarci progressivamente dalla sua dipendenza per riabilitarci passo passo. La messa in discussione della nostra mentalità dovrà essere radicale, ma siccome sono diecimila anni che viviamo in cattività, prima di divellere le inferriate invisibili della gabbia in cui siamo costretti dobbiamo riabituarci alla vita libera e selvatica. E questo è un altro dei capisaldi del pensiero Primitivista. Come tutti i percorsi che mettono seriamente in discussione le vecchie basi d’appoggio, abbiamo bisogno di un periodo di transizione, che ci consenta appunto di riacquisire quelle abilità che ci sono state strappate; ma deve essere una transizione consapevole: occorre cioè sapere dove vogliamo andare e perché. Finché continueremo a credere che si possa fermare il treno stando seduti davanti a un computer, o aderendo a una campagna informativa, o seguendo il leader di qualche partito o movimento alternativo, tutto continuerà a procedere come sempre. Per liberarsi dal giogo della civiltà ci vuole ben altro di quanto la stessa mette a disposizione a coloro che ancora vi confidano. Dobbiamo avere la forza di opporre un rifiuto generale a un’esistenza determinata dal tecno-capitale: ritrovare la forza e il coraggio di rompere progressivamente i legami della nostra dipendenza da questo universo al collasso ritrovando man mano quell’autonomia che ci è stata sottratta. Più dipenderemo dai servizi della civiltà, più saremo costretti a difendere quella invece della nostra vita; al contrario, più riusciremo a fare a meno di tecnologia, economia, scienza, energia, potere, simbologia, più ci ritroveremo liberi e indifferenti ai suoi diktat.

Quanto c’è di utopico in questa idea Primitivista e quanto invece c’è di immediatamente realizzabile?

Non c’è nulla di utopico nel Primitivismo. È solo una questione di consapevolezza e di volontà. Se le persone si renderanno conto di essere in pericolo, alloggiate su questo treno ipertecnologico che corre verso il dirupo, potranno provare a far qualcosa per fermarlo o per saltarci giù prima che sia troppo tardi; se vorranno invece continuare a far finta di niente, se continueranno a oscurare i finestrini per non vedere fuori, a reclamare sedili più comodi e nuovi servizi in cuccetta, si troveranno sul treno quando questo si schianterà. Perché ci sono almeno due cose che mi paiono sicure: che questo treno non si fermerà da solo; che prima o poi accadrà qualcosa che sarà l’equivalente di uno schianto. A questo proposito, basti pensare alla questione della sovrappopolazione. Già oggi siamo oltre sette miliardi di persone sul Pianeta: una pressione ecologica abnorme che la Terra non è in grado di sopportare. Cosa facciamo? Invece di guardare alle cause del problema continuiamo a credere nel progresso e cioè a credere che una nuova tecnologia ci libererà dai danni provocati dalla tecnologia, che una nuova economia ci libererà dai danni provocati dall’economia, che un nuovo messia politico ci libererà dai danni causati dalla Politica e che una nuova energia pulita ci consentirà di continuare a consumare Madre Terra, ma in modo sostenibile. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: stiamo continuando a crescere per numero di abitanti e presto saremo otto miliardi, poi nove, dieci, quindici, venti… È ovvio dunque che presto o tardi qualcosa si verificherà: qualcosa di profondamente tragico e che ridurrà in modo drastico la popolazione mondiale. La domanda allora è semplice: quali saranno le persone che a quel punto si salveranno? Quelle che, nel frattempo, avranno imparato a vivere senza dipendere dai servizi del Sistema, magari ritrovando la capacità di dormire all’aria aperta, di non usare il riscaldamento durante l’inverno, di mangiare frutta e verdura cruda che sapranno riconoscere negli spazi aperti della natura, o quelli invece che senza la loro termocoperta elettrica proprio non riescono a prendere sonno? Non c’è nulla di utopico nell’idea Primitivista. Se sapremo farla nostra, quand’anche non dovessimo riuscire a fermare la locomotiva, ci saremo sicuramente dati le migliori possibilità per non farci trovare sul treno quando questo finirà nel vuoto. Tutto qui.

Dunque, dal Primitivismo non solo riflessione teorica, ma anche soluzioni pratiche?

Sicuramente, ma non bisogna confondere la praticità del pensiero Primitivista con l’idea che questo sia una sorta di programma predefinito pronto solo per essere seguito passivamente. La libertà non è un “modello” che qualche “illuminato” possa consentirci di raggiungere seguendo un certo schema pianificato. I santoni e i capipopolo fanno parte di questo Circo Massimo. Non esistono dunque ricette pronte né decaloghi da seguire; e il Primitivismo non vende rimedi, non propone manuali d’istruzione per l’uso e non ha nemmeno finalità generalizzate come quelle della liberazione dell’umanità dalle catene della servitù. Ogni individuo risponde di se stesso e per se stesso. È con le persone singolarmente infatti che ci si confronta, che ci si conosce, che si creano percorsi di affinità e momenti di complicità. Il Primitivismo non è un nuovo credo in cerca di fedeli. Le mie personali scelte di vita, il mio percorso umano di progressiva emancipazione dalla civiltà e d’indipendenza dai suoi rimedi (e dalle sue esche) non dipende dalle decisioni altrui. Naturalmente, se ci fosse qualcuno seriamente interessato al progetto di una progressiva decivilizzazione che io stesso sto conducendo, può sempre contattarmi: sono a disposizione per confrontare esperienze, per incontri e momenti di condivisione. E parlo della necessità di incontrarsi di persona perché anche questo è un modo di fare che dobbiamo recuperare: riabilitare l’universo caldo delle relazioni in carne ed ossa, dei sorrisi, delle chiacchierate faccia a faccia, dei contatti reali contro quello meccanico e freddo dei rapporti virtuali. L’erosione delle nostre capacità relazionali, infatti, è un altro passo fondamentale del processo di domesticazione che stiamo subendo. Quell’enorme “blob” tecnologico che avanza desertificando tutto ciò che tocca sta fagocitando anche la nostra attitudine ai contatti umani, e se non ce ne accorgeremo in fretta, iniziando a resistervi con determinazione, perderemmo presto anche quell’attitudine. Nel mondo della cybersocialità siamo sempre più isolati e separati da tutto e da tutti: non ci parliamo più guardandoci negli occhi; non ci incontriamo più personalmente; non viviamo più momenti improduttivi e di pura convivialità. Ormai abbiamo persino smesso di toccarci sensualmente: non ci stringiamo più, non ci abbracciamo più, non ci massaggiamo più. Nel mondo moderno non ci si tiene più per mano, nemmeno metaforicamente. Persino le madri hanno smesso di tenere in braccio i loro bambini: oggi ci sono i più pratici girellini, le carrozzine, gli ovetti e i baby parking.  Praticamente le nostre funzioni tattili sono ridotte oggi all’attivazione del sistema touch-screen dei nostri IPhone. Vogliamo fare finta che anche questo problema non esista?

Un dramma umano, dunque, oltre che sociale ed ecologico?

Io osservo la realtà, e quello che vedo lo possono notare tutti. L’insensibilità che stiamo maturando verso il contatto diretto è drammatica: e non è solo nel dilagante menefreghismo e nel cinismo che questo universo competitivo e conformante impone a tutti. L’insensibilità la si misura anche nelle piccole cose: nell’incapacità crescente d’immedesimarci negli altri, nella freddezza con la quale conduciamo tutti i nostri rapporti e, soprattutto, nel rifiuto di riconoscere questa nostra emergente insensibilità. Una mail va benissimo per scriversi o mandarsi informazioni, ma non per costruire relazioni umane solide e durature; allo stesso modo un sito web può essere utile per venire in contatto con certe idee, ma poi, se si vuole far nascere qualcosa assieme ci si deve mettere in gioco di persona. Siamo fatti di testa, non vi è dubbio, ma siamo anche fatti di corpo e di cuore e se non riabiliteremo pure quelli ogni altro passo sarà perduto. Come possiamo pensare di tornare a vivere in un contesto ecologico e sociale di nuovo caldo e accogliente se poi le nostre relazioni resteranno anonime, sfuggenti e distaccate come quelle che c’impongono le macchine? Dico sempre: decivilizzare noi stessi per decivilizzare il mondo. Partire da noi stessi è essenziale.

Gli errori che reputi più macroscopici degli ultimi 50 anni?

Tutti quelli che alimentano il problema fingendo di risolverlo. Ho appena parlato del rifiuto di riconoscere la nostra crescente insensibilità: mettere la testa sotto la sabbia è l’equivalente psicologico del buttare la spazzatura sotto al tappeto. Quando Paul Goodman parlava dei mali della nostro modo di vedere le cose ne citava uno che definiva “il male del non c’è più niente da fare”; io vi aggiungerei “il male del va tutto bene così” e, ancor peggio, “il male del mettiamo una pezza qua e tutto tornerà perfetto”. Le trovate della cosiddetta ideologia verde sono forse il caso più eclatante di quest’ultimo “male”. Come possiamo credere che per risolvere il disastro ecologico e sociale nel quale siamo tutti calati basti sostituire il PIL con il BIL, aggiungere il prefisso “green” all’economia o consolarsi con altri ossimori del tipo tecnologia a basso impatto ambientale, politica democratica, scienza etica, energia pulita? Come dice il mio amico Guido Dalla Casa, “l’energia pulita non esiste!”. E questo è un fatto che dobbiamo ficcarci bene nella testa. Per produrre quella che chiamano “energia pulita” ci vuole sempre tanta energia sporca e naturalmente nessuno ce lo fa notare. Per produrre biocarburanti, ad esempio, bisogna radere al suolo foreste millenarie e sostituirle con colture “dedicate” alla produzione di olio di colza, di cocco, di girasole. Per ottenere energia geotermica bisogna sventrare la crosta terrestre con trivelle potenti (che non sono certo fatte di carta riciclata) e rubare questa energia alla Terra, con tutte le conseguenze di tipo idrogeologico che ne derivano. Lo stesso vale per le pale eoliche, che devastano e consumano il territorio esattamente quanto i pannelli solari. Oggi tutti ci spingono verso queste fonti di energia “sostenibile”. Ma sostenibile per chi? Non certo per le migliaia di persone del terzo mondo che vengono costrette a lavorare 16/18 ore al giorno nelle miniere di silicio, coltan, bauxite, terre rare, ecc. La questione è molto semplice: per far funzionare un pannello solare, ad esempio, ci vuole (tra l’altro) il silicio, e per fare incetta di questo metalloide occorre estrarlo a forza dalla Terra; migliaia di uomini, donne, bambini ricattati dai meccanismi impietosi dell’economia vengono ancora oggi schiavizzati a questo scopo e la Terra viene martoriata da questi scavi e da queste estrazioni. Allora, mi chiedo: che tipo di mondo vogliamo con le nostre rivendicazioni ecologiste? Vogliamo un mondo in cui poche centinaia di migliaia di Occidentali possano far mostra del loro finto ambientalismo da réclame basato sulla presenza di innovazioni costruite sulla pelle di migliaia di poveri lavoratori e bambini schiavizzati? Se è questo il “nuovo” mondo che vogliamo, io non ci sto! Questo mondo “verde” è assolutamente identico a quello grigio in cui già vivo: un mondo che sfrutta, consuma, addomestica e che porta conseguentemente a stare male.

È quello che nel tuo ultimo libro hai definito “il bluff della sostenibilità”?

Certamente! Pensiamo solo alla presa in giro del mondo “verde”, sono ormai cinquant’anni che dura. Negli anni Sessanta del secolo scorso, cominciarono col parlarci della Rivoluzione Verde, che avrebbe risolto il problema della fame nel mondo: era solo la scusa per far entrare i concimi chimici nell’agricoltura e arricchire le multinazionali che commerciavano in quel traffico. Negli anni Ottanta è stata la volta della Benzina Verde, che avrebbe risolto tutti i problemi di inquinamento ambientale: era solo la scusa per farci cambiare l’auto e farcene comprare una/due/cinque con la marmitta catalitica. Oggi parlano di economia verde, di tecnologia verde; e noi che facciamo? Ci crediamo ancora? Dobbiamo smettere di farci prendere in giro, smettere di fare la parte dei passivi creduloni e cominciare a guardare alle cause di ciò che ci sta portando alla deriva. Il problema non è questa o quella energia, è l’energia; non è questa o quella economia, è l’economia; non è questa o quella tecnologia, è la tecnologia; è la politica, è il potere. In una parola sola: il problema che abbiamo è la civiltà. Finché opereremo per cercare di sanare la civiltà, di renderla più verde e più sostenibile, non faremo altro che perpetuare la malattia fino a renderla terminale.

Quale messaggio vorresti che arrivasse ai tuoi figli e ai figli di tutti?

Un messaggio di resistenza per tutti. Non credo che sia stato superato il punto di non-ritorno. Sono convinto che si possa fare ancora moltissimo per fermare questa macchina mostruosa che chiamiamo civiltà, e per cominciare a vivere senza dipenderne. Ma occorre mettersi in discussione davvero e non soltanto per proclamazione di facciata: smettere di credere agli illusionisti della politica (e dell’antipolitica condotta in Parlamento) e cominciare ad agire dentro e fuori di noi per ristabilire quelle competenze d’autonomia e quelle relazioni sensibili che ci sono state rubate, e nelle quali risiede tutta la nostra possibilità di vivere liberamente e dignitosamente. Un mondo libero e dignitoso, infatti, non è il mondo della schiavitù sostenibile, ma quello dell’indipendenza individuale, dell’autodeterminazione, dell’autogestione, dell’autosussistenza, della condivisione. D’altra parte, c’è una metafora molto chiara che descrive la condizione di grave pericolo in cui viviamo oggi: l’ha elaborata Bertolt Brecht quando ha scritto che stiamo segando il ramo sul quale siamo seduti. Quella che i media oggi chiamano “crisi” non è altro che la risonanza dei primi scricchiolii del ramo che sta cedendo. Se vogliamo evitare di finire di sotto non servirà segare più lentamente e nemmeno usare una motosega a energia solare. Bisogna smettere di segare subito e prendere la direzione opposta. Perché la civiltà, in ultima analisi, è proprio una follia. In un paragrafo de L’ultima era ho tracciato un profilo di questa follia, un excursus sulla vita delle principali civiltà antiche della storia: dalla Mezzaluna fertile all’Europa mediterranea, all’America precolombiana, all’Asia arcaica, all’Africa. Ebbene, tutte le antiche civiltà della storia sono finite male: sono scomparse, si sono estinte. E tutte secondo un iter che assomiglia in maniera impressionante a quello che stiamo conducendo oggi. Tutte di fronte al dramma ecologico e sociale portato dallo stile di vita agricolo (stratificazione sociale, sovrappopolazione, guerre intestine e di espansione, contaminazione ambientale, degradazione relazionale, ecc.), hanno reagito inventando trovate sostenibili. Naturalmente sono tutte fallite perché, come si è detto, sopprimere gli effetti di un problema non significa risolverlo ma soltanto perpetuarlo. Proviamo a smettere di guardare avanti, di correre in avanti, di credere a quel mito del futuro migliore che ci ha incatenato a un presente degradato e autodistruttivo, e incominciamo a tornare indietro. Oltre a scoprire che in quel modo si migliora notevolmente la qualità della vita, imparare a tornare indietro potrebbe presto esserci anche molto utile.

 

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